L'imprenditore Sutor: «Ho guidato Cottoveneto con la mano dell'artista»

Domenica 1 Marzo 2020 di Valeria Lipparini
Mario Sutor
Una fabbrica di ceramiche moderne, ma di antica scuola, fondata dal padre Severino Carlo Sutor nel 1968 e poi portata avanti da Mario Sutor insieme al fratello Alberto. È stato al timone di “Cottoveneto” per un quarantennio, finchè l’attività non è stata ceduta. Ma sotto la “scorza” dell’industriale si è sempre nascosto l’animo gentile del poeta. Forgiato, fin da piccolo, da conoscenze importanti. Amici del padre che lui aveva imparato a “respirare” ed apprezzare. Come lo scrittore Giovanni Comisso, che gli ha regalato perfino la prefazione del suo primo libretto di poesie. Sutor parla della sua vita di imprenditore e della passione per la cultura che gli scorre nel sangue da sempre e che ha cercato di abbinare alle mattonelle per le quali Cottoveneto è famosa.
Che ricordi ha della sua infanzia?
«Mio padre arrivò da Torino a Treviso. Aveva 20 anni ed era solo. Alloggiava all’albergo-ristorante “Stella d’Oro”, raso al suolo nel bombardamento del ‘44. Era situato all’angolo con via Toniolo, dietro la casa di Comisso. Lo scrittore vi andava spesso a mangiare, ed è lì che mio padre lo conobbe. Così come conosceva il gallerista Giorgio Zamberlan e i suoi amici De Pisis e De Chirico. Ma anche i pittori trevigiani Sante Cancian e Juti Ravenna. Ricordo Ravenna che arrivava a casa nostra, d’estate, con un’anguria sotto braccio. Insomma, la mia infanzia è stata scandita da incontri con persone speciali. Ho masticato pane e arte. E io che facevo? Studiavo, scrivevo poesie. E dipingevo».
Che ne è stato delle sue passioni?
«Quando sono entrato in Cottoveneto, che mio padre aveva fondato, l’impegno è stato troppo intenso. Ho dovuto chiudere in un cassetto alcuni dei miei sogni. E mi sono buttato nel collezionismo. Adoro i libri, anche se non li scrivo mi circondo di parole. Li cerco nei mercatini dell’antiquariato e ho tante prime edizioni. Vere chicche per un appassionato come me».
L’arte, dunque, è stata dimenticata?
«Macchè. Ho cercato di portarla in fabbrica. Nell’87 ho inventato piccole piastrelle, 10 per 10 centimetri, non più in ceramica ma in marmo. La pavimentazione di Città Giardino a Treviso è stata fatta con queste piccole tessere chiamate “i sassi del Piave”, quasi consumate e perciò simili al greto del fiume. Lungo il percorso, su qualche piastrella, ho fatto incidere brevi versi tratti dalla cultura latina e italiana, da Catullo a Leopardi, da Zanzotto a Petrarca. Sono selciati parlanti che suggeriscono un attimo di riflessione ai passanti frettolosi».
E poi?
«Poi, sempre in Cottoveneto, ho inventato i rosoni con le piastrelle ispirandomi all’arte di Torcello di mille anni fa. Un esempio è all’interno del panificio di piazza Pio X. Ma anche le piastrelle con piccoli versi, stile Aiko giapponesi. Poi, ho aperto la fornace di Cottoveneto agli artisti: loro potevano produrre le loro opere e “cuocerle” da noi. In cambio ci lasciavano qualche pezzo. Così e con la nostra mania di collezionare pezzi rari e antichi è nato il Museo della Ceramica. C’erano i piatti realizzati da Andrea Zanzotto, i pannelli di Simon Benetton, opere di Olimpia Biasi o Vittorio Giardino, insieme a lavori di Gina Roma o Guido Crepax. Ma anche Dinetto, Ambrogio, Rincicotti. Insomma, un pezzo della Treviso definita, a ragione, la piccola, Atene».
Chi ricorda della sua giovinezza?
«Senz’altro Comisso. Con lui facevamo lunghe gite domenicali sul Montello. Andavamo a mangiare da Celeste, che all’epoca era poco più di una osteria. Lui leggeva tutte le mie poesie. Tanto è vero che per il mio volumetto “Un giro di sole” ha scritto la prefazione dicendo, tra l’altro, “Sutor con passo sicuro va con questo libro incontro all’avvenire e alle opere buone”. Ci ammaliava con i racconti dei suoi viaggi. E oggi gli rendo omaggio contribuendo a tenere vivo il premio letterario dedicato proprio a Comisso. Ma ricordo anche il pittore Barbisan. Una volta mi donò un’incisione. E poi tanti altri che hanno arricchito il mio spirito».
E la politica?
«Non mi ha mai appassionato. Conoscevo l’onorevole Corder, una persona squisita, addirittura umile, ma insieme non abbiamo mai approfondito temi politici. Non era proprio nelle mie corde».
Come vede la sua città oggi?
«Ci sono due o tre cose che non mi piacciono. Una volta si camminava a piedi in centro ed era pieno di trevigiani e di vita. Ora c’è il put. E il deserto. Nel contempo, si comincia a ristrutturare gli affreschi che ricoprono le case di Treviso. E questa è una buona cosa. Invece, quello che manca sono le gallerie d’arte. Quando ero giovane ce n’erano parecchie, poi pian piano sono sparite. La gente si trovava per vedere i quadri ma anche per chiacchierare e confrontarsi sulle tematiche più disparate. Adesso si sta a casa coccolati da internet e tivù. Ma non è la stessa cosa. E che dire dei piccoli negozi? Stanno cedendo il passo a supermercati, iper, magazzini. Eppure, rappresentano l’identità di centro e quartieri. Così come stanno morendo gli artigiani. Ora si va all’Ikea. Ma è proprio questa la società che vogliamo?».
E il futuro?
«Sarà una sfida. Per le aziende, impegnate in un difficile passaggio generazionale, che devono cambiare modo di produrre e investire. Per il paesaggio che ci circonda che va salvaguardato e migliorato. Per l’arte, un linguaggio che deve entrare nella vita di tutti i giorni».
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