Paola Cortellesi svetta al box office con "C'è ancora domani": «Il successo? Ancora fatico a crederci»

Giovedì 2 Novembre 2023 di Chiara Pavan
Paola Cortellesi, bel debutto alla regia con "C'è ancora domani"

Paola Cortellesi si gode il momento, «ancora fatico a crederci». Il successo di “C’è ancora domani” sembra sorprenderla giorno dopo giorno, «mai mi sarei aspettata questi risultati in questi termini, e con questo abbraccio». Il suo debutto da regista, al primo posto dei film più visti nel weekend (con 1.644.784 euro), continua a richiamare pubblico, tanto che oggi (2 novembre) per la “première” dell’artista all’Astra di Padova (alle 17.30) e poi all’Edera di Treviso (incontro al termine della proiezione delle 18 e presentazione iniziale di quella delle 20.30), le sale sono già sold out. “C’è ancora domani”, scelto per aprire la Festa di Roma dove ha conquistato tre premi, è un racconto delicato e intimo, girato in bianco e nero, sulla condizione e il riscatto della donna nella Roma del dopoguerra. «È un film contemporaneo ambientato nel passato» che affronta anche con ironia temi complessi come la violenza sulle donne, il divario di trattamento economico, la mancanza di indipendenza, la voglia di “liberarsi”.

Un mondo filtrato attraverso lo sguardo di Delia, «donna senza ambizioni che accetta una vita del genere perchè così doveva essere, così le era stato insegnato sin da bambina. Sono le storie incredibili di nonne e bisnonne considerate delle nullità, che nessuno ricorda e nessuno ha celebrato».

E' stata la sua “anima” da sceneggiatrice a spingerla alla regia più che quella d’attrice?

«Sì, ho sentito che non volevo lasciar andare via quello che scrivevo. Mi era capitato, da sceneggiatrice, di pensare a come avrei voluto girare io una scena, ma poi la scelta spetta sempre al regista. In questo caso, però, il progetto è nato proprio perché io esordissi alla regia. Avevo voglia di girare qualcosa attraverso la mia immaginazione, non quella di altri registi».

Suo marito (Riccardo Milani) è un regista. Una casa d’artisti.

(risata) «Spesso non sappiamo di cosa si sta occupando l’altro. Ma questo è anche una forma di rispetto. Resta il nostro metodo e funziona».

Faticoso stare dietro e davanti la macchina da presa?

«Sì, ma è stata una cosa pensata col tempo: prima da sceneggiatrice insieme a Giulia Calenda e Furio Andreotti, e poi da regista-interprete. Ho fatto tante prove teatrali prima, proprio per “portare a casa” la recitazione. È stata una preparazione meticolosa con gli attori, tutti straordinari che si sono fidati di me, per arrivare preparati sul set. Non puoi improvvisare una giornata di riprese».

La sua Delia “costruisce” tanto...

«Ma non ne ha coscienza. Fa mille cose, ma è come se non producesse nulla, almeno finché non arriva la coscienza di sé che la spinge avanti. È come il criceto che gira nella ruota, lei fatica e non avanza: ma nel momento in cui il germe della consapevolezza nasce e cresce dentro di lei, ecco che Delia si muove, sia pure di poco».

La violenza su Delia non viene esibita in modo crudo, ma mostrata attraverso un’insolita danza, dove ogni livido prima appare e poi scompare magicamente. Come è nata questa scelta?

«Mi è venuto naturalmente. Mi hanno ispirato anche le canzoni che ho ascoltato: “Nessuno”, cantata da Mina, era gioiosa e prometteva l’amore, ma la stessa canzone interpretata da Petra Magoni, così dolente quando parla di eternità, “nessuno ci può separare”, più che promessa d’amore mi è sembrata una condanna, una maledizione».

Per Delia la violenza è una routine, sin dal risveglio.

«Mi interessava raccontare la violenza domestica come un rituale: non volevo esibirla in modo realistico, perché avrebbe sicuramente attirato tutta l’attenzione, togliendola poi all’argomento principale, che è grave e degno di attenzione. Così la violenza appare sempre ugualmente, affiora la terribile routine».

Anche il bianco e nero viene usato in modo particolare.

«Non volevo scimmiottare il neorealismo: a che serve rifare qualcosa che è stato bello in passato? Mi è servito per caratterizzare il periodo, tutti noi riconosciamo quel cinema che parlava di quegli anni. Un cinema legato a quel presente. Ora non avrebbe senso: il mio non è un esercizio di stile per riproporre qualcosa che non siamo noi».

Il marito violento, il personaggio maschile interpretato Valerio Mastandrea, è figlio del suo tempo. Ma gli uomini continuano a picchiare e a uccidere.

«Volevo parlare anche di cosa resiste di quel tempo lì, e ahimè, mostrare quella mentalità tossica maschile, vedere da dove era partita e come era accettata e normalizzata. Purtroppo succede ancora, le cronache ce lo ricordano».

Il possesso.

«È quello che è rimasto di quella cultura lì, il concetto di possesso. All’epoca era normale vivere in totale dipendenza dall’uomo, ma accade anche oggi. Bisogna saper riconoscere il pericolo, ma per farlo serve consapevolezza di sé».

La sua Delia sogna un bel matrimonio per la figlia. Come un traguardo.

«Un traguardo dovrebbe essere la realizzazione di sé, dei propri desideri, degli studi impegnativi per raggiungere un obiettivo. Il matrimonio dovrebbe essere un brindisi con i propri cari per festeggiare una promessa d’amore bellissima».

Che registi ama?

«Sono appassionata di cinema e di teatro da sempre, per cui isolare solo un regista mi è difficile. Quindi, senza citare gli italiani, così non scontento nessuno, penso che tutto il lavoro di Spielberg e i film di Scorsese restino per me dei capisaldi. Anche perché entrambi hanno fatto tutto, hanno abbracciato generi diversi e in modo eccelso. E quando ti affacci a questo mestiere e pensi alla carriera di uno di questi grandi, ti rendi conto di quanto talento e preparazione ci sia in questi mostri sacri».

Pronta per prossimo film?

(risata) «Ecco... andrei subito al terzo. Dopo un bel debutto si va diretti al terzo film» .

Ultimo aggiornamento: 3 Novembre, 10:25 © RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci