Dama, scacchi e l'amor cortese: storia dei giochi nelle novelle del 400

Una ricerca di Matteo Sartori per la Fondazione Benetton indaga sui giochi del ceto nobile e del popolo

Sabato 11 Giugno 2022 di Alessandro Marzo Magno
Dama, scacchi e l'amor cortese: storia dei giochi nelle novelle del 400

L'ozio è il padre dei vizi? Ma non diciamo stupidaggini. L'ozio è il padre del gioco e gli esseri umani hanno sempre giocato e sempre continueranno a farlo. Sia da bambini, sia in età adulta. Certo, anche i giochi cambiano e non si è sempre giocato nello stesso modo e nelle medesime condizioni. Come si giocasse sei/sette secoli fa ce lo racconta Matteo Sartori nel libro Il gioco e la novellistica fra Tre e Quattrocento, una co-edizione fra la trevisana Fondazione Benetton Studi Ricerche e la romana Viella. L'autore è un vicentino laureato in Storia all'università di Ca' Foscari e ora sta terminando il dottorato in Cile.

Lo stesso scrivere novelle può essere considerato una sorta di gioco, basti pensare non soltanto al Decameron, di Giovanni Boccaccio, ma pure al Trecentonovelle, di Franco Sacchetti, opere che mostrano uno significativo spaccato della società dell'epoca.

«Della novellistica», scrive Alessandra Rizzi, ricercatrice a Ca' Foscari, nell'introduzione, «più recentemente, sono stati indagati la cifra erotica, il contesto cortese e conviviale, l'attinenza con la beffa o con la dimensione del magico o del vizio, o, ancora, i rimandi a consuetudini e rituali privati (connessi, per esempio, col battesimo, il matrimonio).

L'INDAGINE
La fonte narrativa (e così la novellistica) è stata riconosciuta come il luogo della verità, modello dimostrativo della vita di ogni giorno». È anche interessante notare come il gioco, tra XIV e XV secolo, sostituisce la spada con la penna. «Nel Quattrocento dunque», è sempre Rizzi a scrivere, «grazie al nuovo clima etico e culturale, mutava la mentalità del ceto dirigente aristocratico e con essa il modo di intendere i passatempi. Emblematico il caso dell'armeggeria: giochi e tornei, infatti, giochi simbolo dell'età di mezzo, furono reinterpretati. I gruppi dirigenti erano preoccupati di individuare i comportamenti, anche ludici, più idonei al proprio status, che li differenziassero da quelli dei ceti subalterni: L'abilità con le armi da esibire nei giochi cavallereschi e tratto essenziale del ceto nobiliare trecentesco fu sostituita dallo studio e dall'apprendimento, per conformarsi all'ideale umanistico».

LA DIFFUSIONE
Oltre che i giochi citati, è interessante prendere in considerazione, quelli che non vengono nominati, ma che noi oggi sappiamo venivano praticati, come per esempio gli scacchi. «Nonostante la loro diffusione presso tutti i ceti sociali, nella novellistica quattrocentesca gli scacchi sono pressoché ignorati, così come le carte, e i dadi compaiono solo come attributo dell'azzardo dei ceti inferiori. Si tratta, dunque, di pratiche che gli autori quattrocenteschi dovettero considerare poco interessanti o, meglio, poco consone al processo di civilizzazione». Il gioco degli scacchi, osserva Sartori, «non era più considerato un passatempo veramente adatto a un nobile perché lo praticavano anche persone vili dalle quali l'etica quattrocentesca consigliava di prendere le distanze e rimaneva comunque un divertimento privo di una propria utilità, che veniva persino giudicato una perdita di tempo. È un aspetto, quest'ultimo, che il gentiluomo di quegli anni iniziava a valutare in maniera decisamente negativa, ritenendolo sufficiente a delegittimare una qualsiasi attività, non soltanto della sfera ludica».

DADI E PEDINE
Anche i dadi, molto diffusi nel Trecento, vengono messi da parte nel secolo successivo. «Si è potuto ipotizzare», aggiunge Sartori, «che il gentiluomo del Quattrocento, che riteneva di dover spendere bene il proprio tempo, cercando di dedicarsi a passatempi in grado di nobilitare il suo ozio, abbia avviato una nuova riflessione su ciò che svolgeva nel tempo libero per distrarsi, dal momento che non tutte le pratiche ludiche erano uguali e altrettanto dignitose. È insomma lecito pensare che un gentiluomo del Quattrocento, ispirandosi a un modello di vita classico e volendo prendere le distanze dalla oscurità del medioevo, ritenesse il giocare a dadi un divertimento davvero poco rispettabile». La trasformazione culturale che avviene nel XV secolo, sottolinea Sartori, «si può individuare, più o meno facilmente, anche nella considerazione mostrata per la musica e la danza, due pratiche appartenenti alla sfera ludica fortemente legate al contesto festoso e, inoltre, strettamente connesse tra loro, perché si balla soltanto se qualcuno suona, e perché spesso alla musica e al canto si accompagna una danza».

MUSICA E SERENATE
«Il fatto che», continua Sartori, «nel Quattrocento tanto l'alta considerazione della musica, quanto l'elogio dell'abilità di saper suonare uno strumento costituissero un elemento di forte novità rispetto al secolo precedente, è qualcosa di notevole di per sé, ma molto più rilevante perché la musica sembrerebbe colmare il vuoto lasciato dall'armeggiare. Nello stesso periodo, infatti, in cui non si legge più di distinti signori che giostravano e conquistavano una donna mostrando la propria abilità cavalleresca, si trovano, invece, alcuni nobili apprezzati per la loro conoscenza della musica e intenti a suonare serenate canzoni e balli notturni sotto la finestra della donna amata». Stava nascendo la civiltà delle buone maniere destinata a soppiantare la civiltà della caccia e della violenza guerresca. Comunque non tutti suonavano tutto: c'erano strumenti adatti ai popolani e strumenti invece propri della nobiltà. Le fonti letterarie ci dicono, per esempio che la cornamusa era suonata da persone del popolo. D'altra parte non sorprende, visto che la sua discendente diretta, la zampogna, è strumento tipico dei pastori che durante le feste natalizie, lasciato il gregge all'ovile, scendono in città. Arpa, organo e liuto, invece, sono considerati strumenti musicali per le classi sociali più elevate. Il liuto, invece, compie un percorso diverso. Introdotto in Europa dopo i primi contatti con la cultura islamica, diventato lo strumento che accompagna il verseggiare dei trovatori provenzali, tanto da identificarsi con essi, questo strumento a corde nel Trecento non registra una connotazione sociale precisa, nel Quattrocento, invece, compie il salto sociale, come testimonia una novella in cui il duca di Milano, Francesco Sforza, viene criticato dagli ambasciatori fiorentini per essersi innamorato, mentre i toscani combattevano. «Arpe e liuti chiamavano voi al ballo, quando la tromba chiamava noi all'arme», e se è il liuto, assieme all'arpa, a convocare il duca di Milano, significa che lo strumento è diventato degno del signore di una delle più importanti città del tempo.

 

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