Polesine, l'alluvione del 1951: un testimone racconta la fuga, la paura e il rombo del fiume che inghiotte tutto

Mercoledì 13 Ottobre 2021
Polesine, l'alluvione del 1951

Si avvicina il settantesimo anniversario dell'alluvione del Polesine del novembre 1951 e ogni anno per me è alquanto doloroso rivivere quei momenti di panico e impotenza, di cui sono stato testimone con i miei increduli occhi di bambino di otto anni.

So che si moltiplicano le intenzioni di tramandare la memoria di quanto avvenuto quella tragica notte con eventi e manifestazioni, quindi ho chiesto a mia figlia di aiutarmi a scrivere per rendermi disponibile al racconto, in modo da tramandare il ricordo di quanto siamo piccoli di fronte alla natura e passare il messaggio che per quel che ciascuno può, bisogna cercare di aiutarla, non ostacolarla o distruggerla, questa benedetta natura.


Mi commuovo ancora mentre racconto, sarà l'età che rende più sensibili, sarà anche che le tragedie lasciano segni indelebili che nessun lasso di tempo può cancellare. Ricordo l'arrivo repentino di mio nonno, col viso trasfigurato dalla paura, temendo di non arrivare sufficientemente presto: se avesse tardato, saremmo stati travolti tutti dalla furia del fiume, quello stesso fiume che tante volte aveva accompagnato i miei giochi di bambino. Egli arrivò in tempo, fortunatamente, ci svegliò bruscamente, erano circa le 21 di una serata qualunque, il nonno mi strappò dai miei sogni, urlava: «Presto, alzatevi! Vestitevi! Il Po ha rotto gli argini, dobbiamo scappare!».


Così ci trascinammo fuori dai nostri poveri giacigli, corremmo a raccogliere qualche coperta e del cibo, io non capivo niente di ciò che stava accadendo, sentivo solo che non andava bene, che c'era un grosso problema e ascoltavo la paura crescere e piano piano, trasformarsi in panico. Cercavo mia sorella Gabriella con lo sguardo, lei è sempre stata un riferimento per me, lo è anche ora che siamo anziani e di vita ne abbiamo vissuta tanta entrambi. Cercavo lei e speravo di cogliere un bagliore di speranza nei suoi occhi, un segno che mi tranquillizzasse. Ma lei era tutta intenta a raccogliere i documenti: mamma aveva distribuito i compiti tra lei e mio fratello maggiore, Vanni. Gabriella si sarebbe occupata dei documenti e Vanni di raccattare del cibo, panbiscotto soprattutto, non c'era molta scelta. Mia madre, Renza Ravarra, nel frattempo, svegliò mio fratello Luigino, il più piccolo, ferito a una mano, lo vestì e lo prese in braccio nonostante fosse incinta del sesto figlio. Mio nonno Antonio Fusaro cercò una lanterna a petrolio, mia nonna, Marietta Parpaiola, qualche coperta. Mio padre purtroppo non era con noi, la sua assenza in quel momento sembrava un macigno a tutti noi, ma stava lavorando a Milano.


E io? Anche io avevo ricevuto un compito, allora pensai di essere grande, qualunque cosa volesse dire quella frase, essere grande. Io avrei dovuto prendere per mano mio fratello Rossano di sei anni e tenerlo stretto. Avevo la responsabilità di un altro essere umano, credo di essere cresciuto in quel momento, con quella consapevolezza.
Dunque ci avviammo correndo verso il palazzone, un condominio alto tre piani, che svettava nella nostra campagna fatta di case isolate, basse e tutte uguali. Si trovava a circa un chilometro da casa nostra e noi corremmo lungo quella strada buia, facendo attenzione a non cadere nel fosso. Non c'era nemmeno più il tempo di avere paura, dovevamo essere più veloci del fiume per salvarci.


Sentivo la voce dei nonni che gridavano: «'tenti putei, a no cascare!», poi sentivi che si offrivano di dare il cambio a mia madre che teneva in braccio il piccolo Luigino, ma lei no, non voleva lasciare il suo cucciolo nemmeno un attimo. In lontananza si udiva il ruggire delle onde, sempre più vicino. Arrivammo in prossimità del palazzone e iniziammo a gridare che eravamo noi, i Fusaro, che ci aprissero, per l'amor di Dio! Allora vedemmo due uomini venirci incontro, furono molto buoni, aiutarono mia madre con Luigino, presero per mano anche noi bambini e via, su per le scale dell'alto edificio, fino al terzo piano, l'ultimo. Ora il pensiero di quel che stava accadendo tornò prepotente: eravamo protagonisti di una disgrazia. Il rumore delle onde si faceva sempre più forte e sempre più vicino, con esso cresceva anche la paura. Ci sdraiammo su giacigli di fortuna insieme ad altri sfollati, grazie agli abitanti di quel terzo piano che ci avevano accolto, provammo a riprenderci dalla fatica della corsa, ma non avemmo nemmeno il tempo di riposare: ecco il boato, ecco l'acqua e il fango che colpirono il palazzone, che per fortuna resse. L'edificio tremò, noi pregammo che resistesse alla furia del fiume, e Dio ce la mandò buona: quel mostro di cemento fu più forte della natura a rimase in piedi, per il momento eravamo salvi, ma l'acqua arrivò a quattro metri e mezzo.

Enzo Fusaro
testo raccolto da
Monica Fusaro


 

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