Garzotto: «Io e i terroristi 40 anni dopo quei cinque colpi alle gambe»

Martedì 4 Luglio 2017 di Edoardo Pittalis
Antonio Garzotto e il suo portafortuna
Sette-sette-settantasette-sette. Secchi come colpi di tamburo. Forse, per chi ci crede, come colpi di fortuna da giocare al lotto. Alle sette del mattino del sette del settimo mese del 1977 risuonarono secchi come colpi di pistola. Antonio Garzotto, cronista del Gazzettino, cadde ferito alle gambe a due passi da casa sua a Abano Terme. I terroristi lo aspettavano nascosti in un furgoncino bianco, scesero, spararono e scomparvero. Non li hanno mai identificati.
Erano “anni di piombo”, tempi duri anche per i giornalisti. “Pennivendolo” gridarono a Garzotto i feritori. Il mese prima avevano sparato a tre giornalisti, tra i quali Indro Montanelli. A novembre a Torino avrebbero ucciso Carlo Casalegno. Nemmeno tra giornalisti c’era tanta solidarietà, per trovare il nome di Montanelli sulla prima pagina del Corriere della Sera con la notizia dell’attentato, bisogna cercare con pazienza. Il grande giornalista aveva da poco lasciato il quotidiano per fondare il “Giornale”. Montanelli spedì un telegramma affettuoso al cronista padovano: “Mi hai voluto imitare”.
Oggi Antonio Garzotto è un signore di 87 anni, in pensione dal 1995. È stato un grande cronista giudiziario, ha raccontato la Padova degli anni ’70, quella di Autonomia Operaia e del terrorismo, quella che in certe notte si accendeva di una dozzina di attentati incendiari. Al Portello si combattè una vera e propria battaglia con le forze dell’ordine; il popoloso quartiere dell’Arcella fu messo a soqquadro con azioni di tipo militare. 
In due anni tra il ’77 e il ’79 nel Veneto si contarono 1197 atti di violenza terroristica, 708 nella sola Padova. Garzotto prendeva nota di ogni episodio in un quaderno che diventava grosso come un elenco telefonico, con la copertina nera e i bordi delle pagine color vino. Lo aveva chiamato “Apocalisse”. Il suo giro di nera al mattino incominciava con la stessa domanda: “Quanti botti stanotte?”.
Dopo quarant’anni Garzotto racconta quel giorno. 
«Sapevo che ero nel loro mirino, la Digos aveva trovato il mio nome nell’elenco di un covo. Quella mattina per prudenza avevo lasciato la mia auto nel garage del mio amico Giulio. Sono passato in edicola a ritirare il Gazzettino. Avevo appena girato l’angolo del bar Casara, erano le sette precise, quando uno è sceso in corsa dal furgone e ha sparato. Cinque colpi alle gambe. Sono scappati verso la chiesa del Sacro Cuore, erano tre o quattro persone con quello che guidava. Mi sono appoggiato a un lampione e m sono lasciato scivolare. Nove buchi nella pelle, perché un proiettile era rimasto dentro. Potevano ammazzarmi, la pallottola ha sfiorato l’arteria femorale. Potevano lasciarmi su una sedia a rotelle. Dal bar sono usciti per prestarmi i primi soccorsi, mi hanno portato un cognac per farmi riprendere».
Ha avuto paura?
«Non ho fatto in tempo ad avere paura. Mi hanno preso alle spalle, dalle ferite non usciva molto sangue, non riesco proprio a ricordare se in quei momenti ho sentito freddo o caldo. Una sorta di nebbia che ha ovattato ogni cosa».
Perché hanno colpito lei?
«Ero il cronista giudiziario, seguivo tutto quello che facevano, sapevo a che punto erano le inchieste. Avevo scritto che la casa dello studente Fusinato era un pozzo d’acqua in cui il pesce dell’eversione nuotava benissimo e dava ospitalità a molti latitanti. In più avevo molti amici tra investigatori e magistrati, a incominciare dal procuratore Aldo Fais. Il clima di Padova in quei tempi era terribile, l’Università era un caos continuo, Autonomia Operaia seminava il terrore e c’erano tutti gli altri, brigatisti rossi e neri, sigle eversive di ogni genere. Quelli che hanno rivendicato il mio attentato si sono firmati Unione comunisti combattenti! C’era il forte sospetto che Br e Autonomia facessero azioni comuni».
Come fu il risveglio in ospedale? Sul Gazzettino compare una foto scattata poco prima di mezzogiorno, lei risponde al telefono.
«Vennero molti cronisti, perché tutti i giornali avevano un inviato a Padova per seguire quello che accadeva. La prima faccia che vidi era quello del collega e amico Giovanni Lugaresi del Gazzettino, poi Maria Luisa Vincenzoni che allora scriveva per l’Unità. Mi hanno regalato un portachiavi d’argento a forma di pistola, giusto per ricordare. Eccolo, l’ho sempre con me».
L’attentato le ha cambiato la vita?
«Per quasi due mesi sono rimasto ingessato, poi ho usato a lungo con un bastone. Il direttore mi chiese se volevo trasferirmi, risposi che volevo riprendere il lavoro interrotto. Ogni mattina arrivavo in redazione a Padova, allora il Gazzettino era in via Boccalerie, le finestre davano su piazza della Frutta, posteggiavo e andavo a piedi in via Altinate al Tribunale. Uno dei primi giorni, a una conferenza stampa, si avvicinò un giovane e gridò: “Garzotto pumpum”, mimando il gesto dello sparo. Poi li ho rivisti quasi tutti, mi sono sfilati davanti in manette quando c’è stata la retata del Sette Aprile».
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Ultimo aggiornamento: 5 Luglio, 07:41 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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