«Non vogliamo vendette, ma dare voce a chi non c'è più». L'intervista a Piero Mazzola, figlio del carabiniere in congedo ucciso dalle Br

Giovedì 14 Marzo 2024 di Angela Pederiva
«Non vogliamo vendette, ma dare voce a chi non c'è più». L'intervista a Piero Mazzola, figlio del carabiniere in congedo ucciso dalle Br

PADOVA - Il 17 giugno 1974 Piero aveva 29 anni, mentre Antonio 30, Mario 25 e Anna quasi 20. «Eravamo solo dei ragazzi e da allora è passata una vita, ma il dolore è qualcosa che ci siamo portati dentro e che non abbiamo potuto dimenticare», confida il secondogenito di Giuseppe Mazzola, il carabiniere in congedo ucciso insieme all'agente di commercio Graziano Giralucci, nell'assalto delle Brigate Rosse alla sede del Movimento Sociale Italiano in via Zabarella a Padova.

L'avvocato e professore è stato delegato dai fratelli a presentare alla Procura di Roma la querela nei confronti di Donatella di Cesare, docente dell'Università La Sapienza, per il post su X dedicato alla defunta Barbara Balzerani, già affiliata alle Br.

Cosa vi aspettate?

«L'atto è stato depositato, ora dovremo attendere i tempi tecnici. Non so se finirà tutto con un'archiviazione, o magari in prescrizione, ma il senso era non fare passare inosservata l'offesa alle vittime e ai loro familiari. I miei fratelli ed io siamo fermamente convinti che è nostro dovere dare voce a chi non è più tra noi. Nessuna pennellata ideologica riuscirà a coprire, modificare o nascondere le azioni di quelli che erano e restano degli assassini».
Anche se è trascorso mezzo secolo? Fra i terroristi dell'epoca, diversi si sono dissociati.
«Li chiamano "ex", ma gli assassini rimangono tali, così come non ci sono "ex" morti. Chi è deceduto, purtroppo non risuscita, a parte uno solo... Sa, bisogna ricorrere all'amara ironia, sennò si sta troppo male».

Cos'è che la ferisce di più?

«Parliamo di una filosofa teoretica che è una docente universitaria. Io ho insegnato per oltre 40 anni a Padova, all'istituto di Scienze giuridiche della facoltà di Scienze politiche, proprio dove c'era Toni Negri. Ricordo bene la potenza evocativa delle lezioni e dei seminari che teneva: quello che ne è seguito è sotto gli occhi di tutti. Susanna Ronconi, condannata per l'omicidio di mio padre, era una sua studentessa all'epoca e frequentava i corsi di Dottrina dello Stato. Voglio dire che i professori hanno una responsabilità molto elevata. Negli anni 70 i genitori dei militanti venivano da noi in istituto a dirci: "Fate qualcosa perché ci stanno rovinando i figli". E noi ci sentivamo impotenti».
In questi 50 anni, ha mai ricevuto lettere o telefonate dai componenti del commando?
«Mai. Mi è stato chiesto se li ho perdonati, ma è una domanda priva di senso. Il perdono fa parte della relazione tra la persona e Dio, è una cosa interna, punto e basta. Io mantengo la mia attenzione sul profilo della responsabilità, anche se vedo che è un concetto che nel tempo si sfuma. I terroristi dimenticano, forse vogliono assolvere se stessi. Agli altri puoi mentire, ma quando ti guardi allo specchio, quello non mente. Comunque noi familiari a suo tempo abbiamo dovuto fare fronte a Francesco Cossiga prima e a Paolo Ferrero poi, lo faremo se del caso anche in futuro».

Nel 1991 Cossiga propose la grazia a Renato Curcio, condannato in via definitiva per l'attentato di via Zabarella.

«Perciò i miei fratelli, nostra madre e io rinunciammo alla cittadinanza italiana, fino allo scadere del suo mandato da presidente della Repubblica».

Nel 2007 Ferrero nominò Ronconi nella Consulta sulle tossicodipendenze. E voi?

«Denunciammo il ministro. Ogni volta passiamo per vendicativi, mentre facciamo semplicemente valere la legge. E chiediamo rispetto perle vittime. Come quella volta che in Puglia (nel 2018 nel Foggiano, ndr.) l'Anpi voleva dare un riconoscimento e far tenere una conferenza a Curcio: noi abbiamo reagito e loro hanno soprasseduto. Capisco che questi possano andare in giro a parlare, perché li invitano e in Italia ognuno può dire quello che vuole, ma è intollerabile che gli enti pubblici diano addirittura il patrocinio a queste iniziative, come quell'altra volta sempre in Puglia».

A Bari nel 2019 Alberto Franceschini, altro condannato per il delitto, venne chiamato a un convegno su Aldo Moro. E poi?

«Mi telefonò il governatore Michele Emiliano, per dirmi che era un'iniziativa del Consiglio regionale, dopodiché fu annullato tutto. Ma non è una bella vita dover stare sempre a vigilare su queste cose. Il nostro vanto, però, è che non abbiamo voluto trasmettere l'odio ai nostri figli, perché l'odio è morte».

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