Abano. Il racconto dell'ultramaratoneta Nicola Benetti: «Dall'Antartico al deserto, la guerra non fermerà le mie avventure»

Venerdì 3 Novembre 2023 di Alberto Zuccato
Nicola Benetti

ABANO (PADOVA) - Nicola Benetti, ultramaratoneta di Abano, era pronto a partire per la Giordania, per una traversata nel deserto di 250 chilometri da compiere in sette giorni. Ma la guerra in Medio Oriente e il rifiuto di una gran parte degli iscritti, ha indotto l’organizzazione di Racing The Planet, a rinviare: la maratona verrà recuperata – conflitto permettendo – in primavera o nel prossimo autunno. 

«Quelli di Racing The Planet – dice Benetti – si sono comportati come meglio non si poteva. Hanno privilegiato la nostra sicurezza ai loro interessi economici e ci danno anche la possibilità di recuperare quanto versato, partecipando eventualmente a un’altra maratona e se non sarà possibile andare in Giordania. Io sto pensando di recarmi in primavera nel deserto della Namibia».

La pandemia da Covid l’ha costretta a costretto a una pausa? 
«Sì, l’ultimo deserto che ho attraversato è stato quello di Atacama, in Cile.

Sono trascorsi quattro anni e mezzo, ma mi sono sempre tenuto in attività, ho partecipato in marzo all’Ultrabericus di 47 chilometri e in aprile all’ecomaratona di Padova. Ma correre in un deserto è tutt’altra cosa, per cui mi sarebbe piaciuto andare in Giordania. Ma ero preoccupato per quanto sta accadendo, non sarei stato sereno. Giusta e saggia le decisione di annullare la prova. Intanto, per mantenere la condizione, ho preso parte, con mio figlio, alla mezza maratona di Venezia». 

Come aveva affrontato la preparazione?
«Quando lo scorso maggio ho deciso di partecipare, mi sono reso conto che la mia preparazione per correre in un deserto era da ricostruire, quindi ci ho dato dentro. Ho deciso di cambiare metodo puntando più sulla qualità che sui chilometri corsi con lo zaino, certo riadattare la mia struttura fisica ai 9 chili di peso non è stata una passeggiata, ma bilanciando bene corsa, palestra, yoga e bici ero a buon punto e pronto a partire. Adesso dovrò fare mantenimento, e non sarà troppo difficile perché il fisico ha memoria, ricorda la fatica fatta, mette da parte energia». 

Cosa intende per “meno chilometri” e cosa ci mette nello zaino? 
«In giugno ho fatto 120 chilometri di podismo e 245 con la bicicletta da corsa e ho aumentato progressivamente fino ad arrivare in settembre a 290 di corsa e 400 in bici; in ottobre tali distanze si sono triplicate, poi ci doveva essere la fase di scarico. Lo zaino, che nel deserto è fondamentale, contiene circa 5 chili di cibo, poi utensili da cucina, pile, garze, qualche medicinale». 

E per dormire? 
«L’organizzazione fornisce il supporto necessario, dopo ogni tappa c’è un campo attrezzato perché il riposo è fondamentale. La vita del campo mi piace, si dialoga con gli altri partecipanti, ci si scambiano le impressioni. E poi dal campo si possono ricevere i messaggi dei familiari, degli amici e non c’è altro modo per rimanere in contatto, perché non ci sono telefoni. E neppure riunioni di lavoro. Anche questo mi piace». 

Lei ha da poco compiuto 61 anni: non sono troppi per attraversare un deserto di corsa? 
«No, perché? Con l’avanzare dell’età si diventa meno veloci, ma più resistenti, il fondo va bene e migliora la qualità della vita fisicamente e mentalmente. Per me è diventata fondamentale l’alimentazione. Ho sperimentato varie soluzioni e sono diventato vegano perché mi aiuta a recuperare meglio le energie, a sentire meno la fatica. Però non sono un integralista e se qualche volta capita non disdegno una bistecca o del pesce». 

Lei consiglia ai non più giovanissimi di dedicarsi alle competizioni di fondo? 
«Non siamo tutti uguali, dipende da molti fattori, ad esempio il peso, lo stato di schiena e ginocchia. Ma in linea di massima per gli ultra 40enni sono più adatte le prove di resistenza che i 100 metri piani». 

Lei quando ha iniziato con il podismo?
«Avevo 34 anni, facevo le solite cose, palestra, squash, ma non mi appagavano. Così ho cominciato a correre, ho fatto il giro dell’isolato, poi sull’argine, quindi qualche garetta domenicale, poi una mezza maratona, la maratona intera. Mi divertivo, perché divertirsi è fondamentale. Mi alzo alle 5, mi alleno due ore, poi doccia e al lavoro. Quando esco, verso le 19, altre due ore di bicicletta. Se non si prova il piacere della fatica non si fa una vita del genere». 

L’idea di andare a correre in un deserto, come arriva? 
«Un po’ per volta, anche per la noia delle maratone su strada che ora faccio di rado. Mi affascinava trovare nuove sfide e il deserto con i suoi misteri mi attirava. Nell’aprile 2006 mi sono iscritto alla Marathon Des Sables in Marocco; è stato fantastico e da allora non ho più smesso. Ho corso nel Sahara, nei deserti di Namibia, Nepal, Madagascar, Sri Lanka, in quello del Gobi in Cina e anche in Antartide. Bisogna prepararsi molto bene, non si va a fare una gita». 

Che sensazioni prova? 
«Ogni deserto me ne dà di differenti, il fascino di Atacama, che è quello che più mi è piaciuto, coi suoi incredibili paesaggi lunari, dove perfino la Nasa fa esperimenti per i satelliti; in Giordania dove ho già corso nel 2012, mi sembra di rivivere le atmosfere di Lawrence d’Arabia e in tutti la sensazione è di invulnerabilità, nonostante il caldo, la fatica, il dolore e la tentazione di fermarsi dopo ogni passo, e poi il silenzio, le notti stellate. E’ tutto incredibilmente bello. In famiglia mi hanno sempre appoggiato e sostenuto. Mia moglie viene spesso a correre con me e anche i miei figli hanno, in misura più ridotta, queste mie passioni. In fondo per andare a correre in un deserto sto via solo una decina di giorni all’anno». 

 

Ultimo aggiornamento: 18:07 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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