Coronavirus Veneto. «Quella notte a Schiavonia in cui tutto è cominciato»

Venerdì 3 Aprile 2020 di Gabriele Pipia
Coronavirus Veneto. «Quella notte a Schiavonia in cui tutto è cominciato»
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MONSELICE (PADOVA) Sono le 15.45 di quel maledetto venerdì 21 febbraio. La dottoressa Roberta Volpin, da sei mesi direttrice del Pronto soccorso di Schiavonia, è in piedi davanti alla macchinetta del caffè. Squilla il telefono, risponde alla chiamata del dirigente medico e bastano trenta secondi per realizzare che da quel momento cambierà tutto. Quarantadue giorni dopo la dottoressa Volpin guida il pronto soccorso di un ospedale diventato Covid Hospital della provincia di Padova. «Stiamo vivendo un momento che finirà sui libri di storia», sospira alle nove di sera riabbracciando finalmente il marito: Raffaele Latella lavora alla terapia sub-intensiva dell'Azienda ospedaliera di Padova. Una famiglia impegnata da un mese e mezzo nella battaglia contro il virus. Lei sta al primo approdo dei pazienti mentre lui si trova vicino all'ultima spiaggia.



Dottoressa, è già passato più di un mese e mezzo.
«Sì, ma sembra davvero un'eternità. E ora a mente lucida mi viene da dire che la gestione che abbiamo avuto in quei frangenti è stata perfetta, senza alcuna sbavatura. Nello stesso giorno venivano diagnosticati pazienti positivi sia a Schiavonia sia a Codogno. Come sia andata da noi è sotto gli occhi di tutti».
 
Cosa ricorda di quel pomeriggio?

«Non scorderò mai la telefonata in cui vengo informata che abbiamo due casi di positività a quel virus finora per noi sconosciuto. Metto giù il caffè, mi incollo al computer e controllo il database. Sì, entrambi i pazienti erano passati per il pronto soccorso. Uno il 16 febbraio, l'altro tre giorni dopo. Moriranno entrambi nel giro di poco tempo».

A questo punto cosa succede?
«Parlo con la caposala, con la direzione medica e con la direzione sanitaria. Capiamo subito che bisognerà chiudere il pronto soccorso e poi pensare al loro paese, Vo'. Stiliamo subito la lista di pazienti e personale potenzialmente entrati in contatto con i due infetti e nel giro di poche ore facciamo 120 tamponi. Intanto, in serata, il povero Adriano Trevisan non ce la fa».

In sala d'attesa e tra i vari reparti c'era molta gente.
«Sì, infatti decido di metterci la faccia. Non diciamo a nessuno di cosa si tratta per non creare panico, ma comunico che per motivi organizzativi chi non ha vere urgenze deve rivolgersi ad un altro pronto soccorso. Molti se ne vanno, qualcuno non capisce e inizia a sbraitare aggredendoci».

A quel punto non viene chiuso solo il pronto soccorso, ma tutto l'ospedale.
«Era doveroso. Io sono stata dentro quasi 48 ore. C'era da organizzare i test su tutto il personale e sui loro familiari. Devo dire che ci siamo fatti trovare pronti perché avevamo già il protocollo da adottare in caso di necessità. Ma è come le istruzioni anti-incendio: fino a quando non capita credi di non doverle usare mai».

Ha avuto paura?
«No, ero troppo concentrata su quello che c'era da fare. Ho cercato di tenere nervi saldi, sangue freddo e andare avanti. Non potevo essere io a trasmettere paura. Alcune colleghe e colleghi ne hanno avuta, soprattutto chi ha figli a casa. Ma in quel momento era normale».

Che giorni sono stati, quelli successivi?
«In due giorni abbiamo lavorato per chiudere il pronto soccorso e realizzare accessi separati. I tecnici si sono messi a mettere su nuovi muri. Un lavoro incredibile. Abbiamo chiuso gli accessi dirottando le ambulanze altrove. Il pronto soccorso ha riaperto più di un mese dopo, la notte del 7 marzo».

Come siete organizzati?
«Siamo il pronto soccorso per i pazienti Covid. Chi ha un qualunque tipo di trauma o altro problema ed è un contagiato o un sospetto contagiato, viene da noi. Abbiamo un'area interamente dedicata ai pazienti infetti».

Qual è stata la difficoltà più grande di questi ultimi quaranta giorni?
«Controllare le notizie false e infondate che si diffondevano tra il personale. C'era il rischio che si creasse un allarme inopportuno. Ad un certo punto, per esempio, si era diffusa la voce che mancassero mascherine. Ma non era vero. Semplicemente le scorte erano al sicuro, sotto chiave».

Le rifaccio la domanda. Davvero non ha mai avuto paura?
«A dire il vero sì, una paura c'è stata. Ho avuto l'angoscia che qualcuno del personale si ammalasse. Devo nominare la coordinatrice e la vice, Silena Piasentini e Giovanna Cardin. Abbiamo controllato tutto, a partire da come di vestivano. Siamo state rigide e a volte dure, ma era necessario. E il personale, 120 tra medici, infermieri e oss, ha capito».

Qual è stata, invece, la più grande gratificazione?
«Il fatto che la popolazione si sia finalmente accorta del nostro lavoro. Questa emergenza ha portato alla luce il buono della nostra professione e della nostra missione»

Lei ha un marito che lavora all'ospedale di Padova e due figli adolescenti. Come racconta loro tutto ciò?
«Già adesso, per quel poco che riusciamo a vederci, ne parliamo. Lo ripeto sempre: quello che stiamo vivendo loro lo troveranno sui libri di storia».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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