«Io, alpino soccorritore del Vajont non dimenticherò mai quel bimbo morto abbracciato alla madre»

Giovedì 15 Giugno 2023 di Dino Bridda
Renato Bogo, la testimonianza dell'alpino soccorritore del Vajont

BELLUNODa giovane, se incontri la morte faccia a faccia, ne serbi dolorosa memoria per sempre. È quanto accadde il 9 ottobre 1963 al bellunese Renato Bogo, militare di leva nel 7° Reggimento Alpini. Da allora le rievocazioni del disastro del Vajont, come accade quest’anno al Raduno Triveneto delle penne nere, lo toccano sempre e la commozione riaffiora dai siti della memoria. Tra i gradoni di Longarone l’alpino Bogo raccolse la salma di un bimbo, sfigurato e gonfio, ancora avvolto dal calore della mamma vicina in un abbraccio dato da poco. Il giovane alpino era tremante ed oggi rivede nella memoria quella scena con un dolore senza risposta. Lo stesso che provò allora nel vedere il terrore negli occhi di quel bambino.

Come cominciò quella gravosa avventura?
«Iniziò nella notte quando, rientrato in caserma, avvertii una strana sensazione, una misteriosa inquietudine. Le luci degli uffici dei comandi erano accese e l’aria era attraversata da un brusìo continuo. Pochi passi verso la mia branda e subito sentii la tromba suonare l’allarme. La solita manovra di esercitazione, pensai. E via di corsa al posto di lavoro».

La triste notizia era già arrivata in caserma, ma in che modo?
«Ci fu un laconico fonogramma: “La diga del Vajont è caduta Longarone non esiste più”. Fummo tutti sgomenti, ci sembrava incredibile, impossibile.

Che cosa era accaduto?
«Ma non ci fu il tempo di ragionare, gli ordini di servizio sovrastarono la confusione del momento e già eravamo sulla strada verso Longarone. La mente correva veloce. C’era da capire, verificare, quantificare, sistemare. Ci sarebbero state mille cose da fare, troppe cose da fare».

C’è da immaginare quanto fu arduo il percorso verso Longarone, una corsa ad ostacoli.
«Sì, non fu facile. Tra Ponte nelle Alpi e Fortogna trovammo montagne di detriti, animali gonfi d’acqua, corpi abbandonati, devastati dall’onda e trascinati dalla corrente del Piave. Impossibile arrivare a Longarone dallAlemagna. Salimmo quindi verso Pirago, oltre la ferrovia che portava in Cadore. Lì non restavano che ferro contorto, braccia metalliche protese verso l’alto ad implorare un aiuto impossibile».

Che cosa le passò per la mente in quegli istanti?
«Nella memoria mi si scolpirono immagini simili a sculture futuristiche. Sembravano un richiamo silenzioso che non ti lasciava pensare con lucidità. Il mio sguardo corse sul niente che restava intorno, tra i sassi della piana del fiume Piave e quella luna alta, piena e beffardamente splendente sopra i contorni della diga».

La diga era come una presenza inquietante?
«Certo. Stava lì, in cima alla gola, ancora intatta. Dominatrice incontrastata di quell’orrido illuminato, spettatrice muta, una vera grande testimone della tragedia. Come potevo capire l’accaduto, chi avrebbe potuto spiegarlo? Non restò che immaginare il lento sgretolarsi della montagna fino allo scivolare improvviso dentro il bacino. L’acqua che cresce, cresce e diventa un’onda, l’onda che sale piena di forza, che passa sopra la diga, in quella notte silenziosa, sino a sfiorare il cielo».

E l’acqua?
«Era ovunque, sopra tutto e tutti! Però la diga non crollò, rimase intatta: baluardo inconsapevole del nostro destino di uomini. Ci penso ancora, ci penserò sempre, come posso dimenticare? Quello fu il mio incontro con il dolore, quello vero e tragico, talmente grande da segnare tutta la mia esistenza. Nell’immensità di quella devastazione mi sono sentito testimone di una guerra silenziosa, combattuta senza armi e senza possibilità di vittoria contro noi stessi e la nostra presunzione di poter dominare la natura». 

Ultimo aggiornamento: 07:13 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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