Cinque condanne a morte, ma i presunti mandanti dell'omicidio di Jamal Khashoggi vengono tutti assolti perché «l'omicidio non fu premeditato». Dopo un processo durato un anno, è questa la verità della giustizia saudita sull'efferata uccisione dell'editorialista del Washington Post nell'ottobre del 2018 nel consolato di Riad a Istanbul.
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Altri tre imputati sono stati condannati a 24 anni complessivi di carcere, mentre i restanti tre sono stati assolti. La procura generale di Riad non ha identificato i condannati. A farla franca per «mancanza di prove» sono soprattutto le due presunte menti dell'operazione, secondo le accuse dei magistrati di Istanbul e degli esperti dell'Onu: assolto Ahmed al-Assiri, ex numero due dei servizi segreti, accusato di aver diretto l'operazione sul campo; neppure incriminato Saud al Qahtani, stretto consigliere ed ex responsabile per la comunicazione sui social media di Mbs, nonché spin doctor della sua immagine di governante riformatore, che avrebbe dato il via libera ai killer.
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Per i giudici sauditi la brutale uccisione del reporter, il cui corpo è stato fatto a pezzi e i cui resti non sono mai stati ritrovati, sarebbe stata un'operazione sfuggita di mano. Per la Turchia, che sin dall'inizio ha chiesto invano l'estradizione dei sospetti e un processo condotto da autorità indipendenti, è «un verdetto scandaloso dopo mesi di udienze segrete» che non chiarisce i punti interrogativi ancora esistenti. «Inaccettabile», lo definisce semplicemente la promessa sposa del reporter Hatice Cengiz, l'ultima ad averlo visto prima dell'ingresso nella sede diplomatica saudita. «La parodia di giustizia continua», ha commentato Agnes Callamard, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie, che lo scorso giugno aveva pubblicato un approfondito rapporto sul delitto in cui si parlava di «prove credibili» di un possibile coinvolgimento del principe e della sua cerchia ristretta.
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Conclusioni a cui del resto era giunta anche la Cia, ma che erano state di fatto ignorate da Donald Trump per difendere la partnership strategica con Riad, cliente privilegiato dell'industria della difesa americana. La sentenza di primo grado, contro cui sarà possibile presentare appello, è giunta dopo 9 udienze, cui hanno potuto assistere alcuni diplomatici internazionali e familiari del reporter ucciso. Ma il processo è stato duramente criticato a livello internazionale per la mancanza di trasparenza. «La giustizia è stata calpestata», accusa senza mezzi termini Reporters sans Frontières. Secondo il suo segretario generale Christophe Deloire, la condanna dei cinque imputati «è un modo per farli tacere e nascondere la verità per sempre». Per Amnesty International la sentenza non porta «né giustizia né verità».
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Il Regno invece rivendica di aver portato i responsabili davanti alla giustizia e incassa la benedizione dei figli di Khashoggi, che secondo il Washington Post avevano ricevuto nei mesi scorsi ricchi indennizzi dalla corona dei Saud. Con il verdetto di oggi, l'Arabia Saudita prova così a mettere in archivio la vicenda che più di tutte ne ha danneggiato la reputazione e ripulirsi l'immagine internazionale in vista della vetrina del G20 del prossimo anno a Riad.