«Addosso a me sento solo l'odore di morte, ma la sacralità di quel che faccio mi dà la forza per continuare a sporcarmi di sangue» racconta Simcha mentre rovista fra le macerie di una camera da letto distrutta. Corpi sventrati, decapitati, mani e piedi mozzati, membra sparse. È la vista quotidiana delle centinaia di volontari di Zaka, l'organizzazione paramedica israeliana che insieme alle unità di medicina legale delle Forze armate israeliane è letteralmente in prima linea nell'identificazione delle vittime e nella raccolta di tutti i resti dei cadaveri, incluso il sangue, generati dalla mattanza di Hamas: «Da quel sabato sera con i miei colleghi trascorriamo giorno e notte in tutti i villaggi attaccati per recuperare le salme e i loro resti». Riconoscibili dai giubbotti gialli catarifrangenti che indossano, i membri dell'organizzazione sono stati tra i primi a giungere nei luoghi devastati dall'escursione terroristica di Hamas del 7 ottobre scorso.
LA CHIAMATA
«L'esercito mi ha chiamato alle 19.30.
Il motivo dell'azione di Zaka non è scientifico, bensì religioso: per la fede ebraica, i corpi devono essere recuperati il prima possibile e ricomposti in tutte le loro parti disponibili, così da garantire una sepoltura integra e adeguata secondo le leggi della Halakha. Per questo, anche ritrovare i brandelli più piccoli è imprescindibile. «Restituire dignità ai morti, indipendentemente dalle circostanze del loro decesso, è la più grande carità che si possa fare perché non si ottiene un ringraziamento. Chi è morto non può dare nulla indietro» spiega uno degli altri volontari che da oltre 20 giorni trascorre le giornate a cercare i resti dei morti lungo il perimetro fra Israele e Gaza. Già, perché nonostante la guerra guerreggiata paia essersi spostata dentro i confini della Striscia, Simcha e gli altri continuano a setacciare i kibbutz ora abitati dai battaglioni militari: «Nelle prime due settimane abbiamo spesso trovato nuovi corpi rimasti inizialmente nascosti e tuttora raccogliamo i resti che non abbiamo individuato durante la prima visita. Abbiamo ancora del lavoro da fare qui».