L'opera della Dante: sguardo su una
via dove vincono orgoglio e intolleranza

Venerdì 30 Agosto 2013 di Adriano De Grandis
Una foto di scena del film "Via Castellana Bandiera"
VENEZIA - Partenza discreta del concorso, con subito il primo film italiano (la prova migliore) tutto chiuso in un vicolo palermitano e uno australiano, narrato al contrario nei grandi spazi deserti di quel continente. L’esordio di Emma Dante, alla prima regia cinematografica, dopo diversi lavori a teatro, basato sul suo romanzo omonimo e fin dal titolo "Via Castellana Bandiera" indica un luogo come assoluto protagonista, una sineddoche che rappresenta l’intera citt di Palermo, più volte nominata all’inizio, quando le due protagoniste (Rosa e Clara, la stessa Dante e Alba Rohrwacher, la prima più convincente), coppia probabilmente in crisi, si recano con la loro auto al matrimonio di un amico di Clara, al quale non arriveranno mai.



Costrette a modificare il percorso per degli intoppi, finiscono in Via Castellana Bandiera, dove sopraggiunge in senso contrario un’auto stracarica della famiglia Calafiore, guidata dalla suocera Samira (un’impeccabile Elena Cotta), una donna terribilmente testarda: qui basterebbe che una delle auto facesse marcia indietro fino al rispettivo bivio per sbloccare la situazione, ma nessuno vuole cedere il passo. E tutto degenera.



Una storia fortemente claustrofobica, dove la mancanza d’aria (la prima scena è sott’acqua, poi si resta spesso in apnea dentro le autovetture) rappresenta la chiave interpretativa dei rapporti umani, inchiodati, a tratti con violenza, tra l’orgoglio e l’intolleranza. Emma Dante evita l’impatto teatrale che potrebbe scaturire da un contesto fortemente immobile, alternando campi medi e lunghi che possano contestualizzare la location di degrado, a un uso costante dei primi piani, restando a ridosso dei personaggi. Si finisce dentro un duello silente e femminile a tinte western (la regista parla di omaggio a Leone), tra Rosa e Samira, dove l’auto è l’arma in pugno: qui la Dante inserisce tutta una fenomenologia socio-culturale un po’ risaputa, ma a tratti efficace (il gioco delle scommesse, l’agitazione del quartiere) e ricalca un po’ le atmosfere e le situazioni di "È stato il figlio" di Ciprì, passato proprio al Lido l’anno scorso.



La commedia a tinte forti paga forse nella seconda parte una stasi narrativa che avrebbe favorito una conclusione più rapida (sebbene il film non sia certo lungo), ma l’opera si fa apprezzare per alcuni momenti di forte impatto, a partire dalla visita al cimitero iniziale, fino alla conclusione, lunga e a camera fissa, sorprendente e a senso metaforico (la strada improvvisamente si allarga), dove irrompe il bellissimo motivo corale "Cumu è sula la strata", unico cenno musicale di tutto il film. In definitiva un esordio dignitoso per Emma Dante e una buona partenza per il cinema italiano.



Non entusiasma "Tracks" sul vero viaggio-sogno di 2700 km compiuto, nel 1977, da Robyn Davidson (una didascalica Mia Wasikowska) dall’entroterra australiano fino all’Oceano Indiano, con 4 cammelli e una cagna per compagni, e, talvolta, un fotografo del "National Geographic" (Adam Driver)pronto a catturare l’avventura. Siamo dalle parti di "Into the wild" al femminile, ma John Curran non riesce a far scattare la scintilla introspettiva, limitandosi a furoreggiare con i paesaggi, gli incontri standard con gli aborigeni (e i turisti), in un’epica illustrativa, sicuramente affascinante e fotografata in modo eccellente da Mandy Walker, ma non lontana dallo stesso "National Geographic", sul quale si vorrebbe ironizzare. Un film dalle cadenze fin troppo lente, che rischia di lasciare abbastanza indifferenza.
Ultimo aggiornamento: 08:36 © RIPRODUZIONE RISERVATA