"Misericordia", la storia al limite di Emma Dante
«Una favola contemporanea contro il cinismo»

Martedì 3 Agosto 2021 di Chiara Pavan
TEATRO Un momento di "Misericordia" di Emma Dante a Operaestate

L'INTERVISTA

Quel titolo, “Misericordia”, ci chiama tutti in causa. Tanto più adesso che siamo ancora ostaggi del virus, «con la gente che si è incattivita, irrigidita. Sento tanta rabbia, astio, un grande fastidio per gli altri». Emma Dante non ama le scorciatoie: e il suo ultimo lavoro, “Misericordia” appunto, questa sera a Operaestate (Castello Guido Gobbi di Bassano, ore 21), è ben più di una favola contemporanea intrisa delle fatiche e delle fragilità delle donne. È una scossa contro il cinismo e l’indifferenza che nasce in una «storia al limite», come avverte la drammaturga e regista palermitana, dove uomini e donne si trascinano «nell’inferno di un degrado terribile sempre più ignorato dalla società».

Eppure proprio qui, in questa realtà squallida ed emarginata intrisa di povertà e analfabetismo, l’inaspettato può rivelarsi. Grazie a tre donne che di giorno lavorano a maglia e la notte si prostituiscono per sopravvivere e far sopravvivere Arturo, ragazzo “difettoso” nato dalla violenza, figlio di una loro amica vittima dei pestaggi del compagno.

Come è nato “Misericordia”?

«Avevo bisogno di parlare di maternità. Forse perché sono diventata madre in tarda età di un figlio adottivo, e questa esperienza mi ha cambiato la vita. Poi il lavoro ha preso corpo con l’improvvisazione, con gli attori, ma soprattutto con il danzatore Simone Zambelli, straordinario, che ne è diventato il centro pulsante».

Una storia al limite.

«Una famiglia povera che vive in una stamberga. Eppure, anche se non si tratta di legami di sangue, tutti si sono organizzati come una famiglia, amorevole al suo interno. Tra le tre donne c’è grande rispetto. Si prendono cura di questo “figlio” menomato. Anche io ho un bambino, l’ho adottato 5 anni fa: arriva da una situazione difficile, un orfanotrofio russo, una madre alcolizzata che durante la gravidanza si drogava. Lo spettacolo gira attorno ad Arturo, il ragazzo “difettoso”».

C’è un’assonanza con la fiaba di “Pinocchio”.

«Il bambino nasce “difettoso” grazie ai pugni del padre: è come se nascesse “legnificato”. Nella storia il padre viene soprannominato Geppetto perchè ha una segheria. Di qui l’assonanza con Collodi: ho pensato che Pinocchio potesse essere un personaggio interessante da associare a un bambino che nasce dalla violenza. Pinocchio nella sua vita compie un percorso per diventare un bambino. Comincia la sua vita quando si sveglia bambino grazie al dono della fata. Prima era un “non essere”. Così anche Arturo».

Misericordia, parola antica e bellissima e poco usata oggi.

«Il titolo per me è importantissimo perchè racconta già tutto. E “Misericordia”, inteso in senso laico, è bellissimo ed evocativo, perché contiene due cose, la miseria e il cuore. Sono elementi che possono stare insieme, generando qualcosa di straordinario».

Misericordia che manca tra di noi?

«C’è poco, si è quasi estinta, soprattutto adesso con la pandemia. La gente si è incattivita. Avverti che gli altri sono un pericolo, perchè invadono il tuo campo di azione».

Lei da sempre mette in relazione il mondo “dentro” con il fuori.

«Nelle mie storie ci sono sempre una casa, un interno, l’intimità: poi si deve mettere tutto in relazione con l’esterno. E qui sorgono i problemi, perchè la gente, gli altri non sono disposti ad accettare la diversità».

Dopo “Via Castellana Bandiera” e “Le sorelle Macaluso” tornerà ancora a dirigere un film?

«Sì, lo sto scrivendo, ed è tratto da “Misericordia”. Penso di iniziare a girare la prossima primavera».

Il teatro all’epoca del covid in Italia...

«Sono reduce da Avignone, un miraggio: ho rivisto le file d’attesa, gli spettatori, le code. Ho pensato: forse siamo importanti per la comunità, la gente vuole il teatro. Non è una cosa secondaria come ci hanno fatto pensare in Italia. È un bisogno primario. Ma da noi non l’hanno capito». 

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