Indi Gregory, Roccella: «Volevamo un altro finale, ma nessun obiettivo politico. Uno Stato non dà la morte»

Il ministro della Famiglia: in tanti si sono mobilitati per la piccola, spero che continuino a fare testimonianza

Martedì 14 Novembre 2023 di Francesco Bechis
Indi Gregory, Roccella: «Volevamo un altro finale, ma nessun obiettivo politico. Uno Stato non dà la morte»

Eugenia Roccella, ministro della Famiglia, la natalità e le pari opportunità, quella di Indi era una storia scritta? 

«Se lo fosse stata non avrebbe avuto senso intervenire.

Lo abbiamo fatto proprio nella speranza di evitare questo finale così lacerante, e per rispondere all’appello dei suoi genitori». 

A Roma c’era davvero una possibilità di curare la bambina? Non avrebbe solo prolungato le sue sofferenze? 

«Non possiamo entrare direttamente nelle questioni mediche, di cui solo gli esperti possono occuparsi con la necessaria competenza e serietà. Vorrei solo ricordare che se da una parte c’era l’ospedale di Nottingham, dall’altra c’era il Bambino Gesù di Roma: due équipe mediche di livello scientifico indiscutibile, con pareri diversi, come spesso in ambito sanitario accade. Le terapie del dolore sono molto efficaci, e sulla capacità di evitare sofferenze alla piccola non c’erano dubbi. Nessuno ha illuso i genitori di Indi con la promessa di una guarigione. Ma anche chi non può guarire può e deve essere curato. Questo vuol dire che la sua condizione può essere migliorata e la sua vita prolungata e accompagnata dalla medicina, anche senza una prospettiva di guarigione». 

Indi Gregory è morta, la bambina affetta da una patologia incurabile

C’è chi accusa il governo di aver usato la vicenda per fare politica. 

«Non c’è stato alcuno scopo politico. I genitori di Indi cercavano un’alternativa, e si sono mobilitati per trovarla. L’ospedale Bambino Gesù di Roma, che è un’eccellenza a livello internazionale, ha proposto un altro percorso terapeutico, e il governo italiano ha cercato semplicemente di creare le condizioni affinché la giustizia inglese potesse ripensarci e accettare una soluzione diversa».

A parti inverse, l’Italia non avrebbe percepito un intervento inglese come ingerenza?

«In Italia esistono le dimissioni volontarie dall’ospedale, e si può scegliere di essere curati altrove. A parti inverse dubito che una vicenda come questa avrebbe potuto mai verificarsi. Da noi la concezione universale del servizio sanitario esiste e resiste, mentre altrove si fa più pressante una deriva per cui c’è rischio di curare solo chi “vale la pena”, a volte anche pensando ai costi per la sanità. La vita vale sempre la pena, non ci stancheremo mai di affermarlo».

Ai genitori cosa direte? Auspica un ricorso alla Cedu? 

«Non credo che il modo migliore di risolvere vicende così delicate sia rivolgersi ai tribunali. Penso che ogni decisione che riguarda il malato debba essere presa tra quest’ultimo e il suo medico, in un rapporto di alleanza terapeutica. Spero piuttosto che la drammatica vicenda di Indi, e quella di bambini che hanno vissuto una sorte simile prima di lei, possa indurre una riflessione sul rischio che venga negata la libertà di cura proprio in luoghi e in un’epoca in cui la libertà e l’autodeterminazione vengono presentate come parole d’ordine. Spero che né i genitori né i tanti che si sono mobilitati a loro sostegno smettano di fare testimonianza in questo senso. I genitori di Indi hanno ringraziato l’Italia con parole commoventi, ma oggi possiamo solo essergli vicini».

Restano tante domande in sospeso. Chi, in ultima istanza, deve decidere sulla vita di una persona? Un giudice, i medici, i famigliari?

«Libertà di cura significa che ogni persona è libera di scegliere. Il fattore importante è che in una società solidale questa libertà viene esercitata in un contesto che non ti deve far sentire “di troppo”, che non faccia pensare che vi siano vite degne e vite indegne di essere vissute. Soprattutto, ferma restando la libertà di cura per ciascuna persona, lo Stato non può dare la morte».

Da un lato la battaglia per il “diritto alla vita”, anche di chi è malato terminale. Dall’altra quella contro il “diritto alla morte” di chi soffre e vuole farla finita. Non è un controsenso?

«Io credo che il primo dovere di una società sia quello di essere solidale con chi è più fragile, e dunque anche e soprattutto con i sofferenti. La deontologia medica e anche le leggi non consentono di accanirsi con trattamenti inappropriati. In Italia ci sono leggi che prevedono un percorso per chi rifiuta le cure, e c’è una sentenza della Corte costituzionale che stabilisce le condizioni inderogabili per il suicidio assistito. Ma dobbiamo tenere fermo il principio per cui la morte e la vita non sono scelte che si equivalgono e che il compito di una comunità è tutelare i più fragili, non lasciare solo chi soffre. Se non partiamo da questa idea perdiamo la nostra umanità e la capacità di essere solidali».

Ultimo aggiornamento: 19:12 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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