Effetto Covid/ La sfida demografica da vincere con i giovani

Lunedì 30 Novembre 2020 di Francesco Grillo

È, forse, l’immagine più triste di un anno tristissimo.

I numeri dell’Istituto Nazionale di Statistica e le proiezioni che qualche centro studi sta facendo su questi dati, dicono che l’Italia si sta rimpicciolendo. L’Italia ha perso 250.000 abitanti in soli 8 mesi, scendendo sotto la soglia dei 60 milioni che nelle previsioni Istat avremmo raggiunto tra dieci anni di dolce declino demografico. In effetti, è come se fosse scomparsa in soli otto mesi – da gennaio ad agosto – una città come Venezia (includendovi Mestre). 


L’immagine è quella di un lento calo che ci accompagna da anni e che rischia, però, di diventare tracollo – demografico, economico, di speranze – per l’effetto di uno shock che va oltre la nostra capacità di risposta. Per uscirne, ad un Paese che solo venticinque anni fa era la quarta potenza economica del mondo serve – adesso – tutta la creatività, il talento, l’entusiasmo che pure definisce la storia del popolo che ha più storia di tutti. 


Fu Rousseau a teorizzare che la dimensione della popolazione di uno Stato è, naturalmente, uno degli indicatori più efficaci di quanto una società sta funzionando bene (nonché l’avvisaglia più certa dei problemi che un Paese più grande deve affrontare). Ed è ancora vero che la speranza di vita media (che potrebbe, nei prossimi anni, conoscere inaspettati salti), il tasso di natalità, la capacità di attrarre stranieri, sono tutti misuratori più efficaci del Prodotto interno lordo di quanta fiducia un contratto sociale ispira. In questo senso, il dramma italiano sembra trovare la sua più realistica interpretazione nei numeri che ieri, in un’intervista a questo giornale, il Presidente dell’Istat ha commentato. 


Di Venezie ne potremmo perdere un’altra entro la fine del prossimo anno, per effetto di quattro fenomeni poderosi: decessi per la seconda ondata dello tsunami Covid; effetti collaterali di mancate cure da parte di ospedali saturati; crollo delle nascite dovuto a crescenti povertà; saldi migratori che si stanno invertendo perché anche la capacità di attrarre badanti sta diminuendo. 

Quattro fenomeni che stanno fortemente accelerando quello che era un processo inerziale e di lungo periodo e che ci costringeranno a ripensare una società intera: nel 2030, secondo lo studio del think tank Vision, l’Italia potrebbe essere per numero di abitanti più vicina alla Spagna (che oggi ne conta 47 milioni ma continua a crescere grazie ad un saldo migratorio fortemente positivo dal Sud America) che alla Francia (che alla fine degli anni Ottanta ci fu dietro sia per dimensione economica che per abitanti, e che, da allora, ha sostenuto la natalità con politiche per la famiglia di successo). 


Non è la prima volta che, in effetti, l’Italia vive una crisi demografica. Negli anni scorsi fu il Mezzogiorno a perdere milioni di abitanti – come ci ricorda la Svimez – cambiando però, in maniera diversa, la struttura della popolazione. Negli scorsi decenni, hanno lasciato il Sud giovani e adulti, lasciando a casa vecchi e adolescenti; stavolta è l’Italia, nel suo complesso, che sta perdendo bambini e anziani, lasciando in mezzo adulti sospesi nella precarietà. 

Perdere persone non significa, del resto, solo vedere – come quest’anno – funerali tragicamente più frequenti e culle desolatamente vuote. Riduzioni di lungo periodo nel numero di persone si traducono, anche, in consumi che calano progressivamente. In prezzi delle case in inesorabile declino. In meno lavoratori che supportano chi non lo è più e, soprattutto, in sempre meno spinta – da parte di quelli che hanno più interesse nel futuro – verso l’innovazione, il cambiamento che tiene vive le società. 

Ed allora la domanda è: che fare? Come ridare una spinta ad un Paese che – fino a trent’anni fa – viveva di una vitalità a volte eccessiva, e che adesso sembra accontentarsi delle spente consolazioni che arrivano da parte di una classe dirigente che non riesce a concepire per se stessa altro ruolo che non sia quella dell’amministrazione ordinaria?

È vero quello che dicono i demografi che, da anni, studiano il fenomeno che Covid19 ha accelerato fortemente: abbiamo bisogno di incentivi a costituire famiglie e fare figli. Più in generale però direi che abbiamo bisogno del coraggio di scegliere. Ora che abbiamo di fronte quell’ultima spiaggia che si chiama Next Generation Eu. E che ci chiede, non solo, competenze tecniche vere che sono assai rare, ma una visione, una passione che appare aliena da certe retoriche melense e burocratiche rassicurazioni. 

Rimarrebbe un esercizio retorico mettere la parolina “digitale” su ogni posta degli investimenti dedicati al rilancio, se non lo colleghiamo a riforme che ammettano che non ha letteralmente futuro un Paese che spende quattro volte di più in pensioni rispetto a quello che investe in educazione – dagli asili alle università – per formare le generazioni che nel mondo del lavoro ancora devono arrivare. Se non troviamo il modo per investire quasi tutto sulle scuole, dopo averle tenute chiuse più a lungo di qualsiasi altro Paese del mondo. Non torneremo a crescere nel numero di persone che decidono di far parte di questa comunità (e dunque nel Pil), se – al di là delle strumentalizzazioni della nostra paura – non decidiamo, definitivamente, che, ad esempio, le università italiane devono avere – come proprio primo obiettivo e misuratore di successo – la capacità di attrazione di studenti e ricercatori stranieri in un Paese che è ancora straordinario. E se non reimpareremo a considerare gli anziani una risorsa di esperienza e non solo un peso per sistemi sanitari che vanno – completamente – ristrutturati per portarli – con le tecnologie – a casa di tutti.

La sfida è di una strategia di Paese che deve rimettere al proprio centro studenti, donne e immigrati: quelli che, un tempo, avremmo definito classi produttive. Ma anche di modifica di un approccio che ci ha fatto appiccicare – quasi affezionare – al nostro declino. Dobbiamo riuscire a sfuggire all’idea che quel declino sia inesorabile perché essa ci porta al cinismo che è brodo di coltura per altri errori. Ma contemporaneamente dobbiamo sfuggire a quella sindrome della negazione che ancora ci vuole convincere di una qualche “grandezza” che ci impedisce di considerarci normali. Per dare forza ad un contratto sociale lacerato dobbiamo proteggere chi sta affogando (usando strumenti nuovi per conoscere i bisogni che le tecnologie abilitano); e, però, abbiamo anche bisogno di non morire soffocati di quelle protezioni che ci hanno tolto quella grinta senza la quale individui e comunità muoiono.

In fondo, la natura della sfida che si nasconde dietro un declino demografico così netto è chiarissima: si tratta di scegliere tra la vita che è fatta di memoria, di rischi, di entusiasmi e di progetti; e l’assuefazione ad una decomposizione lenta, che porta – come dicevano gli illuministi – i popoli al proprio oblio. 
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