Alessandro Preziosi in scena con «Il poeta e la sua diva»: «Così scarnifico D’Annunzio»

Il celebre attore in scena il 21 gennaio al Del Monaco di Treviso con un recital che ripercorre i pensieri del Vate quando morì Eleonora Duse

sabato 18 gennaio 2025 di Chiara Pavan
Alessandro Preziosi nella foto di Marco Rossi

TREVISO - D’Annunzio scarnificato, perduto, impotente, con un debito sentimentale e artistico ormai incolmabile nei confronti della sua musa, Eleonora Duse.

La Divina è morta, e lui non può far altro che lasciarsi andare a una confessione in cui ripercorrere il loro legame ripensando alla giovinezza e allo slancio con cui le scriveva.

Dopo “Il piacere di essere D’Annunzio”, Alessandro Preziosi torna a misurarsi con il Vate e approda martedì 21 gennaio al Del Monaco di Treviso (ore 21), ospite del cartellone “Fuoriserie” dello Stabile del Veneto, con “Il poeta e la sua diva”, drammaturgia di Giordano Bruno Guerri e Maria Pia Pagani.

Un «recital delicato» che lo vede condividere il palco con il maestro Carlo Guaitoli al pianoforte in pagine che spaziano da Piazzolla a Bach fino al jazz. L’attore napoletano, classe 1973, amatissimo conte Ristori di “Elisa di Rivombrosa” e integerrimo “Capitano” della Finanza per Sindoni, con una lunga carriera alle spalle che abbraccia anche il cinema (con i Taviani, Faenza, Ozpeteck, Carsicato, Chiesa) e soprattutto i grandi ruoli a teatro (da Amleto, Lear, Cyrano, Don Giovanni, Van Gogh), adora esplorare «il genere umano» attraverso il suo lavoro, specchio dell’anima dei tempi.

E com’è dar voce al Vate?

«Sono molto critico nei suoi confronti: ne celebro la sinfonia linguistica, la legge della parola. Riconosco quanto la parola scritta sia di una potenza e di una modernità incredibili, ma avverto che questo parlare e scrivere sono frutto di un grande analfabetismo sentimentale e di misoginia. E lo si vede in questo spettacolo, dove entriamo nel suo privato».

D’Annunzio visto da vicino.

«Nel “poeta e la sua diva” lo scarnifichiamo nel suo raccontarsi: lo osserviamo perduto, con le mani sui capelli, con un debito sentimentale ormai incolmabile nei confronti della sua Diva. E più lo seguiamo mentre ricostruisce le tappe fondamentali della sua relazione con la Duse, più lo vediamo “piccolo”, e soprattutto incapace di colmare il vuoto di questa relazione, di riempire l’assenza».

Legame tormentato, il loro.

«Infatti. Da un lato abbiamo la Duse che vive in modo radicale e totalizzante il rapporto con il suo poeta, dall’altro c’è il poeta che le ricorda in più occasioni che il legame è di natura artistica. Come se fosse l’arte unica cosa a unirli. In questo, emerge un piccolo uomo che si nasconde dietro un dito, dietro un primo incontro, dietro una visione comune del teatro. Ma in realtà c’è altro».

Emerge finalmente il debito di D’Annunzio verso la Duse.

«Penso che per lui valga un vecchio inciso dei libri antichi della Torah, “Per il tempo che le parole sono nella tua bocca sei il loro padrone, quando le porti fuori diventi il loro schiavo”. Credo fosse un uomo costretto nella sinfonia della riproduzione della realtà attraverso la parola. Il che, poi, non diventa più ricerca o un guizzo, ma maniera. Talmente potente da disarcionare completamente la maturità umana del poeta».

Che idea si è fatto, allora, del Vate?

«Ciò che ci ha lasciato attraverso questo lavoro è una sottrazione: in questo caso, è una resa dei conti, e non tanto per l’imminente propria morte. È la morte avvenuta della sua compagna a costringerlo a guardare in faccia la realtà. Duse usa parola tremenda per definire il rapporto maturato tra di loro, dice «orribile», e D’Annunzio non lo accetta. In questo senso lo sentiamo più umano rispetto a quanto faceva vedere. Osserviamo un D’Annunzio oltre la maschera».

Lei spazia tra cinema teatro e tv abbracciando i ruoli più disparati, da Lear ad Amleto passando per Yanez in Sandokan fino al broker Giovanni di “Black out”, ora arrivato alla seconda stagione. Come sceglie i progetti?

«Vivo le mie scelte come opportunità: non mi rispecchio nell’ambizione di esaurire il compito che mi viene dato. Mi piace andare oltre. Quando si approfondisce, tutto diventa creativo. In questo caso, non è solo D’Annunzio, ma sono indagini collegate ad altri testi e letture. Sono innamorato dei moduli legati al linguaggio e al pensiero, e che vanno al di là del mio mestiere, il quale, alla fine, è solo un mezzo per investigare il genere umano. Come diceva David Lynch, bisogna entrare in uno stato di piacere e di beatitudine intimo che ti fa riconoscere la felicità che non sta lì fuori, sul palco o davanti alla macchina da presa, ma è un pozzo verticale verso l’alto».

Una famiglia di celebri avvocati, liceo classico, laurea in giurisprudenza, assistente di un docente universitario, un bimbo piccolo. E la decisione di fare un salto nel vuoto, lasciare Napoli per Milano e l’Accademia dei Filodrammatici.

«A Napoli si dice “sparigliare”. Un salto nel vuoto alla Lewis Carroll, in quel tipo di vuoto lì. Un vuoto che sapeva già di fiaba d’arte».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
Potrebbe interessarti anche
caricamento

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci