Munifer Karamaleski, il combattente per l'Islam partito dal bellunese per la Siria, si è arruolato nelle fila dell'Isis, il sanguinario gruppo di fondamentalisti che sta...
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Ciò che la famiglia non accetta è però anche la morte del 26enne combattente di Allah partito per la Siria nei mesi scorsi con l'amico Ismar Mesinovic, l'altro "martiere islamico" bellunese. Per i Karamaleski, Munifer è al fronte ma è ancora vivo. «Lo abbiamo sentito anche sabato scorso», dice la sorella Kara. «Ci chiama dalla Siria quando può via Skype». Le telefonate di Munifer sarebbero però stranamente silenziose, parla a monosillabi che la famiglia attribuisce a lui: «Noi gli chiediamo di tornare, ma senza avere risposte». Kara è comunque l'unica persona che può parlare con il fratello, perchè, come racconta lei stessa, «mio padre con Munifer non parla più e impedisce anche a mia madre di farlo. Quello che lui ha fatto non lo accettano. Ma a noi manca molto lo stesso, perché gli vogliamo bene».
Munifer Karamaleski, 26 anni, è macedone. Alla fine del 2013 ha preso tutte le sue cose e, con la moglie e i tre figli piccoli, è tornato in patria. Il filo rosso che lo lega a Ismar Mesinovic, l'imbianchino di Longarone morto il 4 gennaio nella battaglia di Aleppo, va oltre il semplice arruolamento dei due nell'esercito dello Stato Islamico dell'Iraq e del Levante. La presenza della moglie e dei figli di Munifer prima in Macedonia e successivamente - come sembra - in Siria, avvalora infatti la circostanza secondo la quale Mesinovic, prima di morire sul campo ad Aleppo, gli avrebbe affidato il piccolo Ismail David, 3 anni domani.
Non è facile raggiungere la casa dove i Karamaleski vivono da otto anni in Alpago, nella zona meridionale della provincia di Belluno. Bisogna prendere la strada per Chies e, passato Cornei, girare per Tambre. Palughetto è un piccolo gruppo di case, con una chiesetta. Intorno solo campi e boschi. Qualche decina di metri avanti, scendendo verso il torrente Borsoia, c'è un'altra frazioncina: Carpinetto.
Il silenzio lì è quasi assoluto. Si sente lo scorrere delle acque del fiumiciattolo, in basso. Poi i latrati di un cane. La casa dei Kamaleski ha un piccolo orto davanti. La mamma di Munifer, con i capelli raccolti in un foulard, raccoglie i peperoni e qualche rosa. In un italiano stentato parla di Munifer, il più grande dei suoi sei figli, e il volto le si apre in un sorriso. All'improvviso scoppia però in un pianto dirotto. Dalla casa esce una figlia. «Tu vai dentro e stai zitta», dice la ragazza alla madre. La donna obbedisce senza fiatare. Kara, capelli neri corti e sguardo duro, parla del fratello e dell'ultima telefonata. «Non è morto - ribadisce -. Noi gli abbiamo parlato sabato».
Il paese intanto osserva gli eventi in silenzio. Nessuno qui ama immischiarsi dei fatti altrui. Men che meno in quelli di gente che ha usi e costumi tanto diversi da quelli tradizionali. Della famiglia Karamaleski non c'è poi molto da dire. Il padre lavora. Mai un problema con i vicini. Le donne stanno chiuse in casa. Nessuno ha mai sospettato della passione jihadista di Munifer. Fino a quando non ha fatto i bagagli per combattere l'Occidente. Con l'arma più letale che esista: l'odio.
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Il Gazzettino