PADOVA - Doveva essere un'esperienza di lavoro straordinaria, di quelle che possono cambiare la vita per sempre. Chef nella cucina di un ristorante afro-italiano a fianco di...
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ANNUNCIO SUL WEB
Tutto ha inizio intorno a febbraio, quando ha il primo contatto col datore di lavoro nigeriano: «Ho letto assieme a un amico francese questo annuncio sul web. Cercavano uno chef italiano. Qui le cose non andavano bene, così ho pensato che sarebbe stato perfetto per me. Sono partito da Padova con il contratto firmato, un biglietto aereo pagato per me e per mia moglie e un alloggio assicurato. Quando siamo sbarcati in Nigeria il datore di lavoro ci ha chiesto i passaporti che ci avrebbe restituito pochi giorni dopo assieme al visto. Uno, due, tre giorni, una settimana, un mese. Niente. Non abbiamo più visto i nostri documenti. E nemmeno lo stipendio e il trattamento pattuiti sono stati rispettati».
A quel punto Fabio Gibilisco ha deciso che sarebbe rientrato in Italia: «Di fatto, però, eravamo sequestrati, prigionieri di quest'uomo senza scrupoli. Me la sono vista davvero brutta. Eravamo senza soldi, senza un tetto sopra la testa, nella capitale della Nigeria, che non è propriamente il posto più sicuro del mondo, così diverso da come siamo abituati. Ci sono stati giorni che non avevamo nemmeno da mangiare».
Il padovano e la sua giovane moglie Silvia intravedono uno spiraglio di salvezza quando un collega di Fabio, un nigeriano che abita nella baraccopoli della capitale, li fa scappare dal ristorante e li porta in ambasciata. La speranza viene subito annientata: «Mi hanno accolto malissimo dicendomi che non ci potevano fare nulla, che ci volevano almeno una decina di giorni per fare tutti i documenti necessari. Ho chiesto a loro cosa avrei potuto fare, dove sarei potuto andare visto che non avevo un soldo e nemmeno una stanza. Di fatto, mi hanno risposto che mi dovevo arrangiare, e tanti saluti». Gibilisco continua: «Mi hanno dato un numero di emergenza a cui non mi ha mai risposto nessuno, tranne una volta, una donna, che mi diceva che dovevo lasciarla stare, che lei doveva riposare e non passare la notte in bianco per causa mia. Sono rimasto allibito. Mi sono sentito abbandonato dal mio Paese in una situazione di emergenza».
IN UNA CAPANNA
A tirare fuori dai pasticci il cuoco e la moglie è di nuovo l'amico africano: «Mi ha portato a casa sua, sempre che casa si possa definire. Era una capanna nella baraccopoli di Lagos, un posto terribile. Nonostante non avesse nulla, nemmeno per la sua famiglia, la sua Mami ci ha dato da mangiare e ci ha fatto riposare. Nel frattempo lui ha tirato fuori 300 dollari e li ha consegnati all'ufficio immigrazione che ha condonato la mia posizione. Per partire sarebbe bastata la presenza di un dipendente dell'ambasciata a fare da garante. E così è stato. Ma se sono qui, ora, è solo perché mi ha aiutato questo ragazzo, non perchè le autorità italiane abbiano fatto qualcosa. Non mi hanno mai risposto, nemmeno quando prima di partire avevo chiesto informazioni sull'azienda che mi aveva assunto».
Fabio Gibilisco e Silvia sono riusciti a rientrare in Italia «il 19 giugno, dopo tre mesi da incubo. Ora lavoro in Alto Adige, sono tornato sereno, ma quel che mi è successo non lo scorderò mai, mi ha segnato per sempre. Per la prima volta in vita mia, ho avuto davvero paura». Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino