Omicidio di Annalisa Baldovin, la vittima aveva presentato 17 denunce: «Uccise mia sorella e dopo 23 anni è fuori»

Annalisa Baldovin
PIEVE DI CADORE - BELLUNO - Nel 2001 la parola femminicidio non esisteva. Ma l'uccisione di Annalisa Baldovin, avvenuta con tre colpi di pistola dopo 17 denunce sporte contro...

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PIEVE DI CADORE - BELLUNO - Nel 2001 la parola femminicidio non esisteva. Ma l'uccisione di Annalisa Baldovin, avvenuta con tre colpi di pistola dopo 17 denunce sporte contro l'aggressore in sei mesi, rientra a pieno titolo nella categoria di quei delitti che tutti i giorni, oggi, passano alla ribalta delle cronache. «Ogni volta che leggo di questi fatti o che li sento raccontare in tv - afferma Armando, il fratello della vittima - mi ritrovo a ripercorrere i mesi di guerra dichiarati da Davor Kovac a mia sorella, i successivi 47 giorni di agonia in ospedale e, infine, la morte. Ogni volta, per me, è un colpo al cuore». E proprio per non dimenticare questi fatti, ieri al teatro San Gaetano di Castion, il caso è stato ripresentato con l’intervento del sostituto procuratore Roberta Gallego in "Chi si ricorda di Annalisa? Il delitto Baldovin e il dovere della memoria di una provincia". «Ringrazio la dottoressa Gallego - sottolinea Baldovin - per aver voluto rispolverare la memoria su un episodio che per lei, e non solo per lei, è stato scordato troppo presto. La sua narrazione, inoltre, ha voluto essere un monito di insegnamento, in particolare per i più giovani». 

GLI INIZI 
Sono i primi giorni di novembre del 2000. Annalisa Baldovin ha 40 anni, un figlio di 14 e un laboratorio di produzione ottica - Tecnocolor - con una decina di dipendenti. E ha la sventura di incrociare il male. «Incrociare è la parola giusta - racconta Armando Baldovin - perché questo signore, che aveva 35 anni e che nessuno di noi conosceva prima, si è invaghito di lei percorrendo in auto tutte le mattine la strada tra Tai e Pieve per andare a lavorare in ospedale come cuoco. Mia sorella faceva lo stesso percorso ma in senso contrario: da Pieve dove abitava andava in azienda a Tai. Probabilmente l'ha notata, perché bionda e bella com'era non passava inosservata. Ha così iniziato a pedinarla per capire chi fosse. Per Annalisa è cominciato un incubo perché se lo ritrovava ovunque: davanti alla fabbrica, in locali e negozi dove si recava e anche attorno a casa. Una volta, ad esempio, lei andò a prendere le pizze da asporto per noi familiari e lui bloccò la sua auto con la propria impedendole di ripartire». Al contempo iniziano ad arrivare ai numeri fissi della famiglia Baldovin centinaia di telefonate anonime: in fabbrica, a casa di lei e dei suoi genitori e anche all'abitazione del fratello. Tutte mute. Si scopre che le chiamate partono dallo stesso posto: l'ospedale di Pieve di Cadore. Facile fare uno più uno avendo scoperto che Kovac è occupato là. Parte così la prima denuncia per molestie: era l'11 dicembre. Iniziò un'escalation di aggressività. «Un vero dramma - ricorda il fratello - finito nel peggiore dei modi con la sparatoria del 18 maggio 2001». 

L'EVOLUZIONE 
Da quella prima querela ne seguono altre, per minacce ma anche per estorsione visto che in un'occasione Kovac chiede al padre di Annalisa di dargli 150 milioni di Lire per lasciare in vita la figlia. «Lui la voleva a tutti i costi e ai suoi rifiuti le gridava ogni peggior cosa - ripercorre i fatti Baldovin -. Tra le varie frasi pronunciate "troverò il modo per sistemarti per sempre" o "Oggi è il tuo ultimo giorno" o ancora altre parole deliranti mimando con una mano il taglio di gola. Poi iniziò a minacciare anche noi familiari. Io, ad esempio, mi ritrovai più volte con le gomme dell'auto bucate. E poi prese di mira l'azienda che una volta subì addirittura un attentato dinamitardo. In quell'occasione arrivarono anche i Ris di Parma per cercare di venirne a capo ma senza riuscirci: ma a noi la firma dell'autore era più che chiara». Episodi dalla gravità via via crescente tutti puntualmente denunciati. «E più querelavamo - ricorda il fratello - e più lui si agitava temendo di venire allontanato dall'Italia e di perdere quindi il lavoro e minacciava di uccidere, spesso anche alla presenza di mio nipote. Da carnefice era arrivato al punto di dipingersi come una vittima. La sua rabbia era chiaramente percepibile tant'è che si arrivò a un punto in cui le forze dell'ordine ci proposero di portare altrove Annalisa, in una località segreta. Ma come, ci siamo detti, lei non ha fatto nulla di male e dovrebbe abbandonare il suo mondo per colpa di questo criminale che tra l'altro detiene abusivamente armi e materiale esplosivo? Ma è lui che deve sparire dalla circolazione, abbiamo risposto». 

IL CLOU 
«In quei mesi Annalisa perse una decina di chili da quanto agitata era - afferma il fratello -. Non si muoveva quasi mai dalla paura e quando lo faceva era sempre accompagnata da qualcuno. Si arrivò quindi alla minaccia con pistola che Kovac fece a mia sorella in centro a Tai, sotto gli occhi di tante persone. Lei riparò in un bar mentre lui venne fermato e disarmato. Questo atto gli costò l'arresto ma fu ben poca cosa visto che poche settimane dopo uscì e tornò alla carica più feroce che mai. Al seguito dell'ennesima denuncia, l'ultima, scattò per l'uomo il divieto di dimora a Pieve di Cadore. Ma non servì a nulla, nemmeno il posizionamento sull'auto di un apparecchio per seguirne i movimenti, perché quel giorno maledetto lasciò la vettura a Calalzo e con un taxi raggiunse la fabbrica di mia sorella dove le sparò tre colpi. Aveva con sé anche una borsa piena di tritolo: evidentemente voleva far saltare lo stabile. Annalisa venne ricoverata d'urgenza all'ospedale di Pieve dove riuscii a scambiare qualche parola con lei che era letteralmente terrorizzata. Dopo un paio di giorni la situazione sanitaria peggiorò e venne trasferita al nosocomio di Padova dove morì il 4 luglio». Kovac viene condannato all'ergastolo ma dopo vent'anni, grazie alla buona condotta, nel 2021 ottiene la semilibertà. «Non ha mai avuto un minimo segno di pentimento - sottolinea Baldovin - Mai una lettera o un messaggio attraverso il suo avvocato... mai nulla. E ora lui ha una vita quasi normale mentre la nostra resterà segnata per sempre». 

OGGI 


«Tra pochi giorni saranno 23 anni che mia sorella non c'è più - conclude Baldovin - Un'assenza, la sua, che ha ucciso interiormente i miei genitori che da quel momento si può dire che non abbiamo più vissuto. E ha annientato me, il resto dei familiari e soprattutto il figlio Simone che teme che quest'uomo, ora semilibero, possa in qualche modo ripresentarsi a noi. Ancora oggi fatico a leggere le notizie riguardanti femminicidi. Ad esempio l'ultima, clamorosa, di Giulia Cecchettin: seppur storie completamente diverse perché in questo caso parliamo di due giovani ex fidanzati, l'intera vicenda mi ha dato una morsa allo stomaco. Ho seguito le ricerche di Giulia con il fiato sospeso prevedendo, purtroppo, l'esito finale. Ogni volta mi ripeto: speriamo sia l'ultimo femminicidio. E invece, purtroppo, non lo è. Quanto accadde ad Annalisa, più di vent'anni fa in un piccolo paese del Bellunese, sembrava una cosa fuori dal mondo. La storia ci ha fatto comprendere come questi episodi siano invece all'ordine del giorno, ovunque e con i carnefici più disparati, anche brave persone come Filippo». 
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Il Gazzettino