L'Unico, il capitolo del libro "Idoli" dedicato a Maradona

Sabato 28 Novembre 2020 di Redazione online
La copertina del libro

"Idoli" è un omaggio al pantheon calcistico di tutti i tempi scritto da  Diego Alverà, scrittore veronese di 55 anni, con prefazione di Bruno Pizzul.

Il libro - uscito il 3 novembre scorso - è una narrazione lucida e coinvolgente, che fa riassaporare da un punto di vista sempre eccentrico e appassionato le gesta di calciatori del passato che hanno illuminato i "momenti preziosi, in cui tante fragili e brillanti esistenze si sono confrontate con paure e debolezze, ostinazioni e dilemmi prendendo direzioni anche inattese". Personaggi del calibro - oltre a Maradona - di George Best, Garrincha, Gigi Riva, Gianni Rivera e Johann Cruyff passando attraverso il "filtro letterario"  dello scrittore veronese.

Ecco - su concessione dell'editore (Edizioni della Sera)  - la prima parte del capitolo dedicato a Diego Armando Maradona che si intitola:  L’unico.

Aveva pianto e pianto ancora.

Non se n’era fatto una ragione né mai avrebbe compreso cosa aveva spinto “El Flaco” Menotti a lasciarlo fuori dai giochi e abbandonarlo, sconsolato e affranto, a un mare di rimorsi, condannato a guardare l’appuntamento più atteso dal tubo catodico di un televisore. Quel Mondiale negato, scippato all’ultimo momento, sul più bello, dopo averlo ampiamente meritato sul campo, dopo che tutti i giornali lo avevano già inserito tra i fortunati ventidue, era più pesante di uno smacco. Lui era il più giovane, l’ultimo arrivato, il pibe di quel ristretto numero di giocatori che ambivano a vestire il numero diez. I suoi antagonisti, Ricardo Villa, “Beto” Alonso, Ricardo Bochini e Daniel Valencia, avevano sicuramente più esperienza, ma in campo lui se li bruciava tutti. Eppure era toccato a lui restar fuori. 132 Di quell’umido e bagnato 19 maggio 1978 avrebbe per sempre portato i segni. Era un venerdì speciale, un venerdì di raduno con la Selección, l’ultimo prima del Mondiale. Erano ancora in venticinque e Menotti doveva fare una scelta. Non era certo facile, perché Diego Armando, nonostante l’instabile e nervoso equilibrio dei suoi diciassette anni, aveva dimostrato sul campo di non essere inferiore a nessuno. Quel ragazzo scaltro e determinato giocava in maniera stupefacente. Non correva come gli altri, non contendeva il terreno al pallone. Lui, piuttosto, lo dominava. Ne anticipava gli incerti indovinando involuzioni e capricci. Così, ogni volta, riusciva a disporre dei suoi rimbalzi in modo naturale e leggero, come fossero passi di danza, in un moto perpetuo di piroette e sospensioni aeree. Maradona controllava la palla non solo con i piedi e le gambe. La governava con lo sguardo, l’accarezzava con il respiro e la giocava senza farla nemmeno vedere agli avversari, spedendola esattamente dove voleva, lungo curve e parabole che lasciavano di stucco i portieri. Quel ragazzo aveva masticato calcio sin dalla nascita e i suoi giovani anni erano bastati a regalargli il raro talento di prevedere l’imprevedibile. Si era talmente abituato a controllare palloni sgonfi e malridotti che era infine entrato in confidenza con la metafisica e il movimento. Il suo tocco leggero ed elegante sembrava il complemento naturale e armonico del moto rotatorio della sfera, al punto che non si sarebbe potuto dire chi, tra lui e la palla, detenesse il controllo. Vederlo tagliare il campo, in piena corsa e con il pallone tra i piedi, era sempre una sorta di brivido ancestrale. In quel dinamico metro e sessantacinque non c’erano solo talento e atletismo ma tutta l’arte del calcio. La partitella sul campo verde di El Hacha, a Josè C. Paz, nel cuore del parco della Fondazione Salvatori, era appena terminata e Menotti gli si era avvicinato mentre gli altri si erano incamminati verso gli spogliatoi e la doccia. Poche parole, asciutte 133 come il suo volto lungo, tirate come le lunghe boccate di sigaretta. Diego lo guardava con le mani sui fianchi, lo ascoltava senza sentirlo, lo sentiva senza pensare. El Flaco parlava sottovoce, senza indugi e cedimenti. Stava andando dritto al cuore della vicenda. Era spiacente, ma aveva deciso. Lo avrebbe lasciato a casa con Bravo e Bottaniz. Non era una questione tecnica ma di età, aveva subito aggiunto. Troppo giovane per gestire un eventuale incerto. Non voleva che si bruciasse, questa era la storia. Per un talento come il suo ci sarebbe stato tutto il tempo per maturare e mettere su spalle robuste. Quelle parole lo avevano colpito più di uno schiaffo in pieno volto. Perché facevano male, perché venivano dal Flaco per cui aveva una stima immensa e perché, forse, erano anche la pura verità. Forse. Per Diego in quel momento suonavano però come un’odiosa condanna, come un verdetto iniquo e ingiusto. Quelle parole echeggiano anche adesso nel grande corridoio di cemento di questo storico stadio messicano. Da quel giorno lui le porta con sé, stampate addosso, incise sulla pelle viva, appena sotto la maglia albiceleste della Selección, la stessa con cui, tra pochi minuti, scenderà in campo a giocarsi la prima finale mondiale della sua carriera. Quelle parole hanno cambiato la sua vita e le sue traiettorie. Lo hanno spinto a dare sempre di più, a non mollare mai. Gli hanno fatto vedere le cose da un punto di vista diverso, da quello degli esclusi, non solo da quello fortunato dei vincitori. Da quel lontano maggio di otto anni prima la ruota della fortuna aveva preso a girare all’impazzata e lui aveva cavalcato l’onda da protagonista, diventando non solo un calciatore vincente, discusso e applaudito in tutto il mondo, ma anche un simbolo e un’icona dei suoi tempi. Per tutti era diventato Diego Armando Maradona, el Pibe de Oro. Solo un anno dopo quelle brucianti parole, a Tokyo aveva ottenuto una prima e immediata revancha, strappando ai russi il 134 titolo Mondiale giovanile. Poi dall’Argentinos Juniors era passato al Boca, e la sua leggenda aveva preso immediatamente quota. Per la sua storia e quel modo di guardare alla vita come fosse una lunga e infinita partita non esisteva altra squadra dove andare a giocare. Perché nel cuore della Bombonera scorreva sangue meticcio e migrante, perché tra il porto e il Caminito si agitava una storia carica di bastimenti e speranze, perché era gente tosta e caparbia come lui, perché il gialloblu era il colore della sua famiglia e perché giocare con quella maglia era un’esperienza unica e irripetibile.

Per questo tra gli Xeneises Diego si era sentito a casa....

segue

successi, come lui.

Ultimo aggiornamento: 15:46
© RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci