Il numero e l'ultimo avversario inquadrano il destino di Daniele De Rossi. Il 26 maggio, a meno di cambiamento nel calendario della serie A, giocherà la sua ultima partita in giallorosso. Sarà Roma-Parma, come quel 17 giugno del 2001, pomeriggio dell'ultimo scudetto.
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Il titolo sempre sognato dal capitano che in quella stagione fu spesso aggregato alla prima squadra. Senza poter debuttare. Capello gli consegnò però la maglia della prima squadra. Non con il numero di oggi, il 16, ma il 26: quello dell'addio. Cerchio chiuso. Perfidamente.
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«Ho il rammarico di poter donare solo una carriera alla mia squadra del cuore». Fedele per sempre, ma il rammarico adesso è proprio per lo scudetto inseguito almeno 15 anni. E' rimasto per quel titolo che ha solo festeggiato da tifoso, come si sente. E come era già a 11 anni quando varcò per la prima volta il cancello di Trigoria. Ha scelto di vincere meno per provarci qui.
La Nazionale è stato il premio alla sua carriera: con 21 reti è il miglior marcatore azzurro in attività. In azzurro ha vinto il mondiale al Berlino (2006), trasformando anche il rigore pesantissimo nella finale contro la Francia senza perdere la lucidità dopo lo stop forzato (4 turni di squalifica), è stato vicecampione d'Europa a Kiev (2014), campione continentale con l'Under 21 (2004) e bronzo ai Giochi di Atene (2004).
La Roma, però, è stata la sua vita. I laziali lo hanno accetato e rispettato più di Totti proprio per il suo modo di essere leader e trascinatore. Al momento, su invito della società, ha dovuto interrompere il suo legame. Vuole continuare a fare il giocatore, ma la proprietà Usa lo avrebbe voluto in altri ruoli e non in campo. O dirigente o niente. La sua storia somiglia a quella di Del Piero con la Juve.
Il capitano che non decide di lasciare, ma è costretto a farlo.
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