Morto Evtushenko, il poeta che riempiva le piazze

Domenica 2 Aprile 2017 di Renato Minore
Morto Evtushenko, il poeta che riempiva le piazze
Fu poeta precoce Evgenij Alekasndrovic Evtusenko, nato a Zima il 18 luglio 1933 e morto ieri a Tulsa. I suoi primi versi li pubblicò a soli sedici anni, la sua prima raccolta Esploratori del futuro a diciannove. E seguitò a produrre a ritmi sostenuti, senza arrestarsi mai come uno chansonnier che non soffra se è intriso di sudore, la cui effusività canora comunica e seduce. Non era certo esente da effetti spettacolari e autopromozionali. Il poeta saltava come un grillo da un recital ad una conferenza stampa, divorziava e si risposava (quattro volte), si infiammava contro i burocrati di regime e si sgolava: «Amore, siamo proprio noi due /come da infermità estenuati». Però, energico era, travolgente e saltellante, pieno di civetterie, gli occhi sprizzanti astuzia. Sornione come un gatto, saldo come una cariatide sembrava più un divo di Hollywood che un ex enfant prodige biondo, ilare, educato nella Russia staliniana. Il disgelo innalzò Kruscev a nume tutelare delle belle lettere cosicchè di li a poco il Sindacato Scrittori di Mosca accolse Evtusenko come un nuovo Messia ortodosso, l'araldo entusiasta della politica krusceviana. Sulla Pravda attaccava «gli eredi di Stalin», in poesia denunziava gli ebrei (vedi Babij Jar). Scrisse pure un'autobiografia gloriosamente anch'essa precoce nella quale ostentava un cipiglio irriverente che lo rese via via più popolare. Era il vate, il tribuno battagliero, il letterato consapevole del suo posto nella società. «Poeta in Russia è più che poeta», diceva. E aggiungeva: «È dato nascere poeta solo a coloro in cui erra/ l'orgoglioso spirito civile».

SPIRITO CIVILE
Quello spirito civile lo portò nella Centrale idroelettica di Bratsk, (il suo poema del 1965) dove gli operai, emuli di Stakanov, lavoravano sessanta ore la settimana, si riempivano di vodka e il lunedì vomitavano sulla collettivizzazione, sul comunismo e sulla poesia nazional-populista; e portò il giovane Josif Brodskij, futuro premio Nobel, nei campi di lavoro, accusato di vagabondaggio e appellato «sporco ebreo». L'istrionismo dei «poeti che più che poeti» può produrre effetti collaterali, inneggiando alla liberazione della cultura, perpetua schiavitù, il servilismo, la koljma, le prigioni.
Cosi Etvushenko divenne una specie di ambasciatore dell'arte e dei sistemi sovietici all'estero. Venne spesso in Italia per recital, premi e dove girò anche un film autobiografico, Il posto delle bacche. Sorridente, svagato, sentimentale, il poeta vate lodava vino e clima mediterranei, citava Dante e Ungaretti, decantava in pubblico la sua trionfante produzione, Abituato alle grandi folle era anche un abile oratore e uno straordinario dicitore di versi, capace di gareggiare con Gassman in epiche tenzoni poetiche. Era la straordinaria metamorfosi di un poeta che aveva sempre saputo trasformare la propria biografia in eterno spettacolo conservando una permanente e organica condizione di eterno adolescente. A suo tempo, quando abilmente nella Russia di Stalin e poi di Kruscev giocava tra ortodossia e dissidenza in un precario elastico che strategicamente lo lanciava mentre la gente intorno a lui intonava i versi proibiti e i politici si preparavano al XXII congresso, quel poeta voleva essere un nuovo Majakovskij senza fare (possibilmente) la sua stessa fine.
Più di mezzo secolo più tardi, lo stesso poeta Evgenij Evtusenko era un vecchio giovanottone di quasi ottanta anni che apparivano abilmente mimetizzati dal suo indistruttibile fisico di contadino siberiano dove erano marmorizzate le forsennate bevute delle tante notti dissipate di ex-donnaiolo e il rigore di una vera ossessione sportiva, dal calcio al jogging praticato ogni giorno e ovunque.

INESAURIBILE
Il poeta era sempre con gli anni un attempato, inesauribile affabulatore, scaltro come una volpe e guizzante come un'anguilla che (per sei mesi) vestiva i panni del funambolico docente di letteratura e cinema («parlo di ciò che voglio, nessuno mi controlla») a Tulsa, città del petrolio e dei cowboy, sperduta nell'Oklahoma. E per gli altri era ancora il poeta civile e nostalgico che riempieva le piazze in Russia. Erano dodicimila persone ad ascoltare nel 2007 la sua lezione di poesia a Zima, la città natale dove gli era stato dedicato, unico al mondo per un poeta vivente, un museo («lo aveva solo Stalin ed è il massimo per un antistalinista come me»). Ed erano stati dieci, dodici milioni quelli che che ogni sabato lo avevano seguito nello stesso anno in televisione mentre con la sua voce infiammata, leggeva i versi di Mandelstam e di Esenin.
La fame di poesia che in ogni caso lui sembrava ancora incarnare nella Russia tanto diversa di Putin si era rivelata anche con il libro delle Memorie, autentico best seller. Evtusenko si era confessato in piena libertà in quello che considerava «un romanzo d'avventura autobiografico sulla vita del suo autore», con la sua infanzia, le sue performance letterarie, i viaggi, i tanti personaggi incontrati (da Castro a Fellini a Robert Kennedy, Pasolini, Sakharov, Pasternak), il rapporto con il potere e i suoi chierici, e una dichiarata «nostalgia per il censore» di una volta.