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Covid, nei Paesi ricchi si muore di più? Nuovi studi spiegano perché

Salute > Focus
Martedì 23 Febbraio 2021 di Riccardo De Palo
Covid, nei Paesi ricchi si muore di più? Nuovi studi spiegano perché
  • 187

Perché in certi Paesi - a parità di numero di infezioni - si muore molto meno di Covid rispetto ad altri? Perché gli Usa o l’Italia hanno tassi di letalità molto maggiori di Paesi in via di sviluppo come il Bangladesh o la Nigeria? Siddhartha Mukherjee è un oncologo, biologo ed ematologo indiano molto noto in America, autore di diversi saggi, naturalizzato statunitense e professore di medicina presso la Columbia University. In un lungo articolo apparso sul New Yorker cerca di rispondere a questa semplice domanda, partendo da alcuni aneddoti personali, che riguardano alcuni casi avvenuti nel suo paese d’origine.

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My epidemiological whodunnit in the New Yorker this weekhttps://t.co/bXudJVpZex.... what can Agatha Christie teach us about COVID ?

— Siddhartha Mukherjee (@DrSidMukherjee) February 22, 2021

 

Mukherjee racconta la storia di Mukul Ganguly, un ingegnere civile in pensione di 83 anni, che vive a Calcutta. Un giorno, si è recato al “wet market” locale (come quello di Wuhan dove la pandemia è scoppiata). I suoi familiari si sono opposti, temendo che si ammalasse di Covid, e così - malgrado le sue precauzioni - è avvenuto il contagio. Sua nuora - cugina dell’autore dell’articolo sulla rivista americana - ha raccontato che l’anziano è stato isolato in una stanza, con un saturimetro e una bombola d’ossigeno. Per due giorni, Ganguly ha avuto una forte febbre, poi lentamente si è ripreso. Molti altri suoi conoscenti, tra i settanta e gli ottant’anni, hanno avuto un’esperienza simile. Nessuno di loro ha conosciuto ricoveri in terapia intensiva.

 

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Il New Yorker cita la testimonianza di un membro della task force anti Covid dello stato di Mumbai, Shashank Joshi, che ha riferito che le unità di terapia intensiva nell’area di sua competenza sono “quasi vuote”. Questo fa molto riflettere: a Mumbai esiste la più grande bidonville dell’intera Asia, Dharavi, dove un milione di persone vivono ammassate in alloggi di fortuna, le condizioni igieniche sono disastrose e il “distanziamento sociale” tanto decantato non potrebbe mai sussistere. Quando fu dichiarata la pandemia, lo scorso marzo, gli epidemiologi temevano che in una simile baraccopoli si sarebbe verificata un’ecatombe, almeno tre-cinquemila morti. Ma la temuta invasione degli ospedali non c’è mai stata e i morti verificati sono solo alcune centinaia, e ora sono sempre meno i decessi.

Il paradosso è che, solitamente, ci sono sempre più vittime dovute a malattie infettive (come tifo, difterite, Hiv) nei paesi in via di sviluppo. Ma se si guarda alle statistiche attuali, ci sono molte più vittime (anche se non infezioni) riconducibili a Covid-19 nei Paesi ricchi come Italia, Belgio, Stati Uniti, Spagna, Regno Unito, piuttosto che in quelli poveri. Per fare un paragone, in India - 1,3 miliardi di popolazione e strutture sanitarie con molti problemi - i morti sono un decimo di quelli registrati negli Stati Uniti.  In Nigeria, duecento milioni di abitanti, le vittime sono un centesimo di quelle americane. Non solo: in tutti i paesi in via di sviluppo, soprattuto asiatici o dell’Africa equatoriali, i dati di letalità sono sorprendentemente bassi. Soltanto il Sud Africa - dove la variante del coronavirus sta mietendo molte vittime - rappresenta una importante eccezione.

 

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Quali sono le ragioni di questa differenza? Il New Yorker cita la struttura demografica dei Paesi presi in esame, che potrebbe essere decisiva: in un Paese con un’età media molto bassa, i casi di Covid sono per forza meno letali. Ma molti virologi confermano che si tratta soltanto di una spiegazione parziale. 

«Comunque la si pensi - ha detto alla rivista newyorchese Mushfiq Mobarak, economista di Yale che sta sviluppando una strategia anti-Covid per i paesi in via di sviluppo - il mistero rimane. Differenza di dieci o cento volte non sono trascurabil»”. In Bangladesh, dove è cresciuto Mobarak, vivono 163 milioni di persone, e le morti registrate sono 83mila, ovvero il 3,5 per cento di quelle americane, a parità di popolazione. L’età media, in questo caso, sicuramente conta. Ma questo non basta a spiegare certe differenze. In Messico, l’età medi è paragonabile a quella della popolazione indiana. Ma l’India registra un decimo delle morti di quelle registate in Messico.

Mukherjee avanza l’ipotesi che anche altre particolarità sociali vanno prese in esame. Per esempio la struttura di una famiglia tipo. Poiché il virus si diffonde tra membri di una stessa famiglia - dal nipote ai nonni - è un dato da tenere in debita considerazione. Un nucleo familiare tipo, però, si riduce man mano che cresce la ricchezza del paese preso in esame. Nel Regno Unito (42 mila dollari pro capite) il numero è pari a 2,3 membri di una stessa famiglia. In Benin (reddito di dodicimila dollari) sale a 5.2, e solo un quinto di questi nuclei familiari comprende una persona di oltre 65 anni.

Secondo Mobarak, una delle ragioni della letalità potrebbe essere “la distribuzione spaziale degli anziani”. Negli Usa, un terzo delle morti per Covid si sono verificate nelle case di riposo e nelle residenze di lunga degenza per anziani. Ma come può essere che il nonno di una famiglia numerosa, con i nipoti che diventano facili mezzi di contagio, sia meno esposto di un anziano monitorato e assistito con regolarità? Per risolvere questo problema, bisognerebbe conoscere il numero di contatti tra individui. Cosa è maggiormente pericoloso: vivere in una famiglia numerosa ma con pochi contatti sociali con l’esterno o in un piccolo nucleo familiare con molti contatti sociali?

I ricercatori  dell’Imperial College di Londra hanno preso queste variabili per formulare delle previsioni di mortalità da Covid, che si sono rivelate affidabili soltanto nei Paesi ricchi, ma non in quelli in via di sviluppo (almeno per ora: la pandemia non è di certo finita). In Pakistan, 220 milioni di abitanti, avrebbe dovuto piangere la morte di 650mila morti, stando a questi modelli: se ne sono registrati finora dodicimila. La Costa d’Avorio avrebbe dovuto contare 52mila vittime, ma finora se ne sono registrate duecento.

Abiola Fasina, medico in prima linea a Lagos, Nigeria, ha raccontato una situazione tutt’altro che fuori controllo, con pazienti con pochi sintomi e in costante diminuzione. Non solo: “I mercati sono aperti, e molte persone girano senza mascherina”. Stando alle previsioni, la Nigeria avrebbe dovuto contare tra i 200 e i 480mila morti per Covid, ma finora le vittime sono soltanto tredicimila. 

Certo, molte vittime potrebbero non essere state contate a dovere. Oliver Watson, eidemiologo dell’Imperial College che ha contribuito a creare questi modelli di previsione, ammette che potrebbe essere questo il problema. “I morti per malaria registrati sono un quarto di quelli totali”, spiega al New Yorker. Molti decessi avvengono in casa, e ci sono ospedali che non contano correttamente le morti per Covid avvenute durante il ricovero.  In Zambia (che avrebbe dovuto contare 20-30mila morti) sono stati contate 400 vittime per Covid. Ma è poi emerso che, verificando le cause di morte di 364 persone decedute, uno su cinque aveva manifestato sintomi tipici del Covid. Ma questo non basta a spiegare la discrepanza registrata.

La mancanza di dati affidabili è un problema serio. Ma il numero di morti totali è maggiormente affidabile. Ed emerge, per esempio, che tra maggio e agosto scorso, il numero di decessi nel Paese è praticamente raddoppiato. Difficile però dire se questo sia dovuto al Covid, o a suoi effetti sociali, come perdita di lavoro, malnutrizione, migrazioni forzate, carenze del sistema sanitario. 

Qualche indizio può venire dalle ricerche di sieroprevalenza. Lo scorso luglio il ricercatore Manoj Mohanan ha condotto uno studio nel Karnataka, uno stato indiano abitato da 64 milioni di persone. Il testi antigenico ha rilevato che il 45 per cento delle persone testate aveva avuto contattà della popolazione. A Nuova Delhi, il 56%, pari a circa dieci milioni di abitanti.  

C’è poi la pista dell’immunità dovuta alle cellule T, un tipo di globuli bianchi specializzati nel riconoscimento delle cellule infettate da virus e che sono una parte essenziale del sistema immunitario. I linfociti B creano gli anticorpi, mentre le cellule T “cacciano” le cellule infette. 

Entrambe hanno memoria dei patogeni che hanno incontrato, e possono passare di nuovo all’attacco. Al La Jolla Institute for Immunology, in California, i ricercatori guidati da Shane Crotty e Alessandro Sette hanno studiato in vitro le risposte al coronavirus delle cellule B e T, selezionando plasma di donatori che non avevano mai incontrato il virus. La loro scoperta sensazionale è stata che, in circa il 40 per cento di questi campioni prepandemici, si è verificata una risposta delle cellule T.

 

Why some people get very sick from the virus, while others show no symptoms? Discussed the most recent findings with @drsanjaygupta and @profshanecrotty https://t.co/iihf7BD6ke @ljiresearch @CNN

— Alessandro Sette (@SetteLab) August 2, 2020

 

Per essere sicuri del risultato, il test ai campioni è stato ripetuto. E si è verificato che, con importanti differenze nella popolazione esaminata su base geografica, del 20-40 per cento, il risultato veniva confermato. Sette ha raccontato al giornale il caso dell’isola del Giglio, dove la popolazione è risultata ancora non toccata dalla pandemia. C’entra qualcosa la memoria delle cellule T, che ricordano qualcosa di simile al coronavirus che provoca il Covid? Stando alle ricerche attualmente in corso, la memoria di patogeni analoghi - come il coronavirus che provoca il comune raffreddore - potrebbe rafforzare la risposta immunitaria anche in presenza di un nuovo virus. E questo potrebbe spiegare anche la differenza del numero di decessi in diverse parti del mondo.

 

 

 

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Ultimo aggiornamento: 17:09 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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