Brasile, la Mani pulite che scuote una giovane democrazia

di Loris Zanatta
Visto dall’Italia, il terremoto politico e giudiziario che sconvolge il Brasile suona familiare.
Ed evoca ferite aperte, conflitti viscerali che spezzano partiti, istituzioni, famiglie, amicizie. Non è un caso se Mani Pulite è stata più volte chiamata in causa in queste settimane convulse, durante le quali crisi politica, crisi istituzionale e crisi economica si sommano a grandi manifestazioni di piazza e accese campagne dei media, ponendo a dura prova le fondamenta della giovane democrazia brasiliana.

Gli ingredienti ci sono tutti: a partire dalla vasta rete di corruzione alla cui testa spicca il celebre caso Lava Jato. Lo scandalo colpisce, com’è naturale, più di chiunque altri il Partito dei Lavoratori, che ha saldo in mano il potere dal 2002. Ma investe in modo trasversale l’intera casse politica, le istituzioni statali, la mitica Petrobras, il ceto imprenditoriale: un disastro. Potevano forse mancare i pentiti pronti a trascinare nel fango coloro che fino a poc’anzi erano loro complici? Va da sé che l’opinione pubblica si indigni, che le tv ci marcino sopra, che l’eccitazione manichea s’imponga al ragionamento pacato: un po’ perché molti brasiliani sono più colti ed esigenti di un tempo, perciò maldisposti a tollerare la corruzione politica; e un po’ perché la classe politica è da sempre il capro espiatorio più facile da mettere alla berlina, da additare a mela marcia cresciuta in mezzo al popolo buono ed onesto.
 
Ciò che accade in simili casi lo sappiamo bene e già avviene in Brasile: ecco un magistrato ergersi a giustiziere popolare; ecco i politici invocare complotti e correre disperati ai ripari, nel caso di Dilma Rousseff addirittura blindando il governo includendovi Lula come ministro; ecco però la Giustizia intercettarne le chiamate e rivelare ai brasiliani sempre più torvi e divisi che in tal modo essa vuole porre l’ex presidente al riparo dalle indagini; e così via, come una palla di neve che scende lungo il crinale fino a diventare valanga. Potere politico e giudiziario si accapigliano e usano a vicenda; la fiducia nelle istituzioni evapora e quella economica va a carte quarantotto: nessuno più investe, consuma, progetta, la recessione si aggrava. Chi lo avrebbe detto, appena pochi anni fa?
Le ragioni della crisi sono tante.

La corruzione non è un complotto, ma una realtà sociale diffusa, divenuta esplosiva nell’ultimo decennio, quando di denaro ne è circolato in gran quantità. È figlia di tanti fattori: scarsa cultura della legalità, familismo amorale, apparato pubblico pletorico, interi ceti sociali dipendenti dalle sovvenzioni statali, amministrazione pubblica inefficiente e corporativa, sistema economico consociativo e protezionista, votato all’opacità più che alla trasparenza. E così via. Ma il sistema politico è forse il punto più debole dell’intero edificio istituzionale brasiliano: come può garantire stabilità e affidabilità un sistema composto da mille pezzi e altrettanti cerchi concentrici? Un sistema dalla estenuante frammentazione politica tra innumerevoli partiti perlopiù privi di coesione interna? E dalla caotica divisione territoriale, ai diversi livelli dello sterminato sistema federale? Ovvio, in tali condizioni, che l’approvazione d’ogni legge nasca da logoranti ricerche di maggioranze altrimenti inesistenti e che ciò comporti un continuo e frenetico do ut des; per non dire un volgare mercato delle vacche. Può un colosso economico, un paese dotato di una classe dirigente di eccellente livello, di una società civile dinamica e moderna, poggiare a lungo su basi talmente primitive?

Quali che siano le responsabilità di Lula e del suo partito, e non sono poche, e quale che sarà l’esito della crisi in cui si è avvitato il Brasile, con o senza l’impeachment della presidente Rousseff, è lecito prevedere, o almeno sperare, che le procedure costituzionali rimarranno lo spartito cui tutti si atterranno. La storia brasiliana è restìa a esiti radicali e catartici all’insegna del se vayan todos; esito che altrove ha causato gravi danni alle istituzioni democratiche senza intaccare la corruzione. Chissà, allora, che l’occasione non contribuisca a far nascere un vasto consenso sociale e politico a favore della riforma dello Stato e del sistema politico. In tal caso, la crisi sarebbe stata addirittura utile.
 
Ultimo aggiornamento: 18 Marzo, 00:05 © RIPRODUZIONE RISERVATA