Ian Wilmut, morto il “padre” della pecora Dolly: fu il primo biologo a clonare la vita

È morto a 79 anni l'uomo che creò la prima pecora “copiata” a partire da una cellula: dal 1997 in avanti si è evoluta la ricerca sulle staminali e sono una ventina le specie riprodotte in provetta con successo

Lunedì 11 Settembre 2023 di Riccardo De Palo
Ian Wilmut, morto il “padre” della pecora Dolly: fu il primo biologo a clonare la vita

Si è spento a 79 anni il biologo scozzese Ian Wilmut, “padre” della pecora Dolly, primo a clonare un mammifero a partire da una cellula adulta, l’uomo che ha fatto avanzare la ricerca sulle cellule staminali, e sugli organi “coltivati” in laboratorio.

Wilmut era a capo di un gruppo di ricercatori del Roslin Institute, dell’Università di Edimburgo, che il 5 luglio del 1997 fece nascere un’agnellina che fu subito chiamata, scherzosamente, con il nome della cantante country Dolly Parton. «Era un titano del mondo scientifico - lo ha ricordato il professore Sir Peter Mathieson, rettore dell’Università scozzese - i suoi esperimenti hanno trasformato il pensiero del suo tempo. Quel traguardo continua ancora ad alimentare molti dei progressi che oggi vengono fatti nella medicina rigenerativa».

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SENSAZIONE

La sua scoperta fece infatti una grandissima sensazione in tutto il mondo. Il metodo scelto fu il trasferimento del nucleo di una cellula somatica (nel caso di Dolly, mammaria) che poi venne indotta ad avviare lo sviluppo del feto, poi impiantato in una pecora adulta. Dolly, infatti ha avuto tre madri: una che ha fornito il nucleo del DNA, un’altra la cellula embrionale senza nucleo e, infine, la madre surrogata. «Far nascere Dolly è stato come aprire la porta di una stanza sconosciuta e che occorrerà molto tempo per esplorare», disse Wilmut raggiante.
Per qualche mese, sembrava che il mondo fosse sull’orlo di una svolta epocale. Dolly è stato l’unico esemplare sopravvissuto dopo 277 tentativi, ed è morta a sette anni (dopo aver dato alla luce ben sei agnelli) per complicazioni derivate da un virus polmonare. «Era un animale molto amichevole, e faceva parte di una grande scoperta scientifica», la ricordò Wilmut in una dichiarazione al Times, con sincera commozione. Il corpo di quella “storica” pecora è stato impagliato ed è oggi esposto al Royal Museum di Edimburgo.

Già pochi anni dopo la nascita, Dolly dava segno di invecchiamento precoce, come una forma di artrite molto debilitante. Segno che la natura non tollera scorciatoie, e che il ricombinamento di materiale genetico durante la riproduzione ha una sua precisa ragione di essere? Forse, ma ben 13 esemplari di pecora clonati successivamente, con lo stesso patrimonio genetico, non hanno mostrato sintomi simili di senescenza prematura. Molti temevano che, prima o poi, qualcuno avrebbe clonato anche gli esseri umani, una prospettiva che lo stesso Wilmut trovava «ripugnante», oltre che moralmente discutibile.

CAVALIERE

Nel 2006 il professore fu anche nominato a capo del Centro di Medicina Rigenerativa dell’Università di Edimburgo, e nel 2008 ricevette anche il titolo di cavaliere. Negli ultimi anni aveva affinato le sue ricerche sulle terapie con cellule staminali, sperando di poter curare, prima o poi, malattie come il Parkinson, di cui soffriva lui stesso, e che alla fine lo ha portato alla morte. «Siamo ancora a molti anni da questo traguardo», disse una volta con amarezza. Tuttavia, senza i suoi studi non ci sarebbe stata la scoperta delle cellule iPS (staminali pluripotenti indotte) ad opera di Shina Yamanaka, che ha vinto il Nobel per la medicina nel 2012. Un pronunciamento molto chiaro del Parlamento europeo contro la produzione di animali clonati a scopo alimentare risale al 2015. Ma oggi sono una ventina le specie di mammiferi-fotocopia: oltre alle pecore, anche capre, bovini, bufali, maiali, cavalli e cammelli; animali da compagnia come cani e gatti, e da laboratorio, topi e conigli. Si continuano ad effettuare “copie” anche per scopo biomedico, in particolare di maiali. Questo grazie alla scoperta delle tecniche di editing del genoma che permetteranno, in prospettiva, di generare organi umani di ricambio.

Non solo: il sacro Graal della clonazione animale oggi si chiama de-estinzione. Ovvero, riportare in vita specie scomparse. Potremo prima o poi tornare ad ammirare la maestosa bellezza del mammut o della tigre della Tasmania? Alcuni ricercatori sono fiduciosi. Ci crede soprattutto la Colossal, un’azienda americana fondata due anni fa dal genetista George Church e dall’imprenditore Ben Lamm, che in passato aveva lanciato Hypergiant, società incentrata sull’intelligenza artificiale. Ma non basterà certo un algoritmo a riportare in vita i colossi che vissero fino a 3-4000 anni fa.

FRAMMENTI

L’azienda sostiene di avere già completato la ricostruzione del suo genoma, ma il problema del DNA antico è che si degrada e spezzetta in piccolissimi frammenti, impossibili da riassemblare completamente. Ne è conscio Tom Gilbert, genetista evolutivo dell’Università di Copenhagen, che ha cercato di ricostruire il DNA del ratto di Maclear, il cui ultimo esemplare è scomparso nel 1908 da Christmas Island, al largo della costa australiana. «Abbiamo salvato ogni frammento di DNA possibile - ha detto Gilbert - eppure c’è un restante 5% a cui non riusciamo dare un senso».

Ultimo aggiornamento: 21:42 © RIPRODUZIONE RISERVATA