Arrigo Cipriani e il compleanno ai tempi del Coronavirus: «A 88 anni mi manca il bar ma riaprire non conviene». Il figlio contagiato a New York

Giovedì 23 Aprile 2020 di Claudio De Min
Arrigo Cipriani e il compleanno ai tempi del Coronavirus: «a 88 anni mi manca il bar. E la velocità». Il figlio contagiato a New York
Il patron dell'Harry's festeggia oggi il suo compleanno. Da recluso. «Il virus? Mi ha reso più cattivo. Forse per questo mi ha risparmiato. Invece mio figlio Giuseppe è stato contagiato, a New York, ma sta bene». Il ristorante: «Non riaprirà finché ci saranno le restrizioni. Con pochi tavoli non avrebbe senso». Paura di morire? «Alla mia età non mi pare il caso».

«Guardi che 37 miliardi, al di là di tutto, sono un'elemosina, figurarsi poi se dovessimo restituirli più o meno a breve. Per non morire ne servono almeno 400-500 di miliardi. I danni all'economia saranno clamorosi. E noi dobbiamo andare in Europa a battere i pugni, a dire che senza Italia l'Europa non esiste, che nessuno può permettersi di mancare di rispetto al Paese più straordinario del mondo quanto a storia, cultura, arte e bellezza, che il metro di giudizio non posso essere solo i numeri e i bilanci».

Quando si tornerà alla vita normale? 
«Quando troveranno un medicinale in grado di guarire i contagiati. Non dico il vaccino, ovviamente, per quello ci vorrà tempo».

E quando tornerà l'Harry's Bar?
«Non finchè ci saranno le restrizioni. Un locale come il nostro non può riaprire con pochi tavoli, sarebbe un danno ancora maggiore, tanto vale restare chiusi».

Cosa che peraltro non era mai accaduta.
«Non in tempo di pace. Fu la guerra a fermarci, alla fine del 1943, per oltre un anno. I fascisti ci costrinsero persino a cambiare il nome in Arrigo Bar, odiavano i termini stranieri. Certo, oggi se mi metto a fare i conti dico che siamo ad un passo dalla fine, ma poi penso che siamo l'Harry's Bar e torna la speranza».

Dicono che questa sia una guerra, e chissà se il paragone è appropriato.
«Beh, la Laguna è la stessa di allora, è vero, senza barche, piatta, silenziosa, bellissima, come si vede solo nei quadri del Canaletto. Avevo 13 anni, me la ricordo bene. E anche dal punto di vista delle conseguenze economiche ci sono molte somiglianze, con il blocco di gran parte delle attività. Poi, certo, i bombardamenti, i mitragliamenti, il suono delle sirene che annunciavano l'arrivo delle fortezze volanti erano un'altra cosa. E poi non c'era modo di procurarsi il cibo, facevamo le spese con la tessera annonaria, chi aveva soldi e amicizie riusciva anche a procurarsi il lusso di qualche pezzo di carne, nascosto in mezzo alla verdura. Per ora questo problema non c'è, ma se non arrivano in fretta i soldi della cassa integrazione fra non molto la gente non potrà più fare la spesa, questo forse fanno fatica a capirlo. Noi solo a Venezia abbiamo 75 dipendenti, cioè 75 famiglie che vivono del nostro lavoro».

Le quarantena pesa ma si sopporta.
«Mi mancano soprattutto due cose: il brivido della velocità che mi regala la mia auto da 550 cavalli, che non guido ormai da due mesi, e il lavoro, il Bar', come lo chiamiamo noi in famiglia, che è stato il fulcro della mia vita da quando sono nato. Per il resto faccio ginnastica a casa mattina e sera, passeggio fino alla punta della Dogana, ammiro una Venezia vuota eppure se vogliamo ancora più potente, sembra di respirarne l'anima, lo spirito, l'immane forza della sua storia e del suo passato. Vado in vaporetto a Torcello a controllare le nostre 30 mila piantine di castraure che stanno cominciando a fiorire, sto scrivendo il mio 13. libro - Chiamateci infinito - e ho cominciato a riordinare la libreria. Abbiamo in casa una signora bravissima che ci aiuta, si fa la spesa fra le Zattere e San Basilio, ho appena mangiato un buonissimo risotto di piselli. Se devo dirla tutta mi sento in gran forma».

È rispettoso delle regole?
«Certo, distanze e protezioni come da decreto, mascherine e guanti, ma se pensano di relegarmi in casa fino a fine anno come sento dire si sbagliano di grosso».

Come vede il futuro della ristorazione a Venezia?
«I primi a morire saranno i dilettanti, gli improvvisati, quelli con i buttadentro all'esterno. E quando riaprono quelli? Sono più ottimista per i locali di qualità, anche se sarà comunque dura anche per loro».

E quello di Venezia?
«Una grande occasione per fare pulizia e ripartire. Ma solo con l'aiuto delle istituzioni, economico ma non solo. Servono progetti seri, e il primo deve essere quello di creare una nuova generazione di veneziani, partendo dai giovani. Ma ci vogliono persone iluminate, coraggio, capacità di guardare al futuro. L'uomo che pose la prima pietra della Basilica di San Marco sapeva benissimo che non ne avrebbe mai visto la fine, eppure cominciò, ci mise tutta la sua passione, la sua abilità, la sua anima... e guardate cosa ci ha lasciato...».
Ultimo aggiornamento: 10:32 © RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci