Stadio di Padova, la parola alla pronipote del mito Silvio: «Il grande orgoglio di chiamarmi Appiani»

Domenica 24 Settembre 2023 di Gabriele Pipia
Francesca Eugenia Appiani

PADOVA - Quando era bambina Francesca Eugenia sentiva il telefono suonare continuamente. «Chiamavano tantissime persone convinte che rispondesse la biglietteria dello stadio. Succedeva almeno due volte al giorno e ogni volta i miei genitori dovevano spiegare che quello sull’elenco telefonico era il numero del nostro telefono di casa». 
Francesca Eugenia, 43 anni, di professione fa l’agente di commercio e di cognome si chiama Appiani. È la pronipote del grande Silvio e lo racconta con orgoglio aprendo l’album dei ricordi di famiglia.

Un orgoglio che si mescola all’indignazione perché mentre parla camminando nel mitico stadio che porta il nome di Silvio le ruspe sono appena tornate in azione per abbattere la storica gradinata. «Tutto ciò fa mi fa molto male, l’anno prossimo sarà il centenario di questo impianto ed è un peccato celebrarlo così». 


Francesca, cominciamo ricostruendo l’albero genealogico?
«Silvio Appiani, morto in guerra nel 1915 dopo essere stato calciatore di un Padova appena nato, aveva un fratello. Quel fratello era il mio bisnonno Odoardo. Questo bisnonno ebbe quattro figli tra cui mio nonno Alfredo. Un altro figlio era invece Enrico Appiani, anche lui giocatore del Padova tra gli anni ‘30 e ‘40».


Un cognome indissolubilmente legato al biancoscudato. Il primo ricordo?
«Ero in prima elementare quando mio nonno mi portò in bicicletta all’Appiani. Credo fosse il 1986. Ricordo le sue parole. “Francesca, questo è il tempio della nostra famiglia. Quando sarai grande e passerai qui ricordati sempre da dove vieni”. Mio padre si chiama anche lui Silvio in onore della tradizione famigliare ma non è mai stato appassionato di calcio e quindi allo stadio mi portava il nonno. Ricordo l’aperitivo sotto il Salone e poi il pranzo da Cavalca, tradizione prima della partita».


Altre sensazioni?
«Mio nonno è mancato nel marzo del ‘94, per pochi mesi non ha potuto festeggiare la promozione in serie A. Non ha potuto vivere quella grande emozione, ma non mi rattrista sapere che se ne sia andato prima di poter vedere il suo tempio abbandonato alla fatiscenza».


Abbattimento della storica gradinata ritenuta pericolosa e riqualificazione dell’area. Cosa pensa del progetto del Comune?
«Io faccio parte del comitato Pro Appiani, ero lì il giorno in cui sono cominciati i lavori ed è stato davvero orribile. Capisco che non si possa sempre mantenere interamente il passato, ma l’anno prossimo ricorreranno i cento anni dello stadio e sarebbe stato bello celebrare questo monumento storico e sportivo nella sua interezza. Così si abbatte un simbolo della storia del Padova, è un errore. Gli amici mi hanno tenuto da parte un piccolo pezzetto di gradone, ma tutto ciò fa molto male».


Cosa avrebbe fatto lei?
«Speravo che venisse mantenuta almeno la parte più bassa della storica gradinata est dove è nata la Fossa dei Leoni. Non solo per ricordare il passato ma anche perché sarebbe bello poter ospitare all’Appiani un evento come un concerto per duemila persone sfruttandolo tutto. Ben venga il progetto del Comune con la creazione di una passeggiata e lo stombinamento del canale Alicorno: le due cose potevano stare assieme ma nessuno ha mai preso in considerazione le nostre proposte».


Segue ancora il Padova?
«Sempre. Per anni ho avuto l’abbonamento allo stadio ma ora vivo in Friuli e torno a Padova solo un paio di giorni a settimana. Sono diventata più una tifosa da trasferta. Pordenone, Trieste, Vicenza, Venezia. Sempre con tanti amici...».


E quando gli altri tifosi scoprono che lei di cognome si chiama Appiani?
«Molti inizialmente restano sorpresi e spiazzati. Capita soprattutto quando mi viene letto il biglietto all’ingresso. Fa piacere, è un orgoglio». 


In casa conservate cimeli?
«Pochissimi perché nel 1910 quando nacque il Padova non c’era ancora il grande culto del calcio e non ci sono rimaste maglie o palloni in cuoio dell’epoca. La cosa più preziosa che ci resta è la copia di una lettera spedita dal fronte. Silvio era sottotenente, si arruolò volontario e morì al terzo giorno sul Carso. Non abbiamo nemmeno una tomba dove poterlo ricordare».


Altri cimeli?
«Tre fotografie. Una dell’epoca dell’università, una del fronte e quella della squadra di calcio. E poi un annuario di mio nonno pubblicato negli anni ‘30 in cui veniva citato Silvio Appiani. Stop».


Cosa si aspetta per il centenario dell’Appiani?
«Mi aspetto che allo stadio venga data una vera dignità per ospitare eventi di rilievo e non solo amichevoli o partite delle giovanili. All’ingresso c’era una targa per Silvio che poi si è scolorita ed è stata rimossa. Non so che fine ha fatto. Vorrei rivedere quella targa e vorrei vedere l’Appiani valorizzato per davvero».


Con una grande festa?
«Sì, ma non solo. Ha presente quando si dice che la Festa della donna dev’essere tutto l’anno e non solo l’8 marzo? Ecco, per l’Appiani è uguale. Va usato e celebrato sempre. Quello stadio è il nostro tempio». 
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