Valentina, l'ingegnere che "pesca" la plastica: la ricerca dell'ateneo di Padova per studiare i suoi riflessi anche sulla salute dell'uomo

Lunedì 17 Luglio 2023 di Edoardo Pittalis
L'ingegnere Valentina Poli

Per due mesi Valentina ha pescato acqua dall'Atlantico.

Tutte le mattine e tutte le sere, sotto ogni cielo, ha calato le sue provette in vetro dalla barca a vela "Jancris" di 17 metri; ha raccolto campioni per studiare il Dna del mare e capire quanta plastica, soprattutto quanta microplastica, si trova nell'oceano. Un lungo viaggio da Cape Canaveral, in Florida, a Gibilterra. Unica donna dell'equipaggio, l'ingegnere ambientale Valentina Poli, veronese di 32 anni, era imbarcata per una ricerca dell'Università di Padova, dipartimento di Ingegneria, diretta dalla professoressa Maria Cristina Lavagnolo, in collaborazione con l'Università di Genova. A settembre si conosceranno i risultati, le anticipazioni sono preoccupanti: «Ma il mare è inquinato a qualsiasi latitudine, le microplastiche le trovi sull'Everest, ai Poli, nella Fossa delle Marianne».

Dottore di ricerca al Bo, giocatrice di pallavolo per passione, la Poli è il libero della Virtus Abano, seconda divisione: «Adesso sono la vecchietta della squadra, mi alleno quasi tutta la settimana; l'anno scorso abbiamo sfiorato la promozione, ora speriamo nel ripescaggio». Supertifosa del Milan, ama la montagna: «Lo sport come anche la natura hanno la capacità incredibile di connetterti con te stessa. Poi uno sta meglio».

Come è nata la passione per l'ambiente?

«Ho avuto un'infanzia serena con mia sorella Francesca, mia madre Susanna che è vigilessa a Castel d'Azzano e papà Stefano che fa il consulente finanziario. Lui ha insistito molto perché facessi Economia, ma in me era cresciuta questa passione per l'ambiente: amo camminare in montagna, ho incominciato sui Lessini, poi sulle Dolomiti, abbiamo una casa a Madonna di Campiglio. Quando è stato il momento di decidere la facoltà, mi sono detta che volevo fare qualcosa legato all'ambiente e ho scelto Ingegneria ambientale a Padova. Sono arrivata nel 2010 e sono ancora qua, questa è la mia città adottiva. Ho fatto due Erasmus, a Istanbul e a Copenaghen e ho sostenuto esami anche in queste nazioni, sempre in inglese. La tesi l'ho discussa in Danimarca su "modello per la stima di parametri ambientale in fognatura", relatore il professor Luca Palmeri. Al ritorno, sono entrata nel mondo del lavoro per quattro anni, in un'azienda di Rubano specializzata proprio in fognature e acquedotti. Mi sono accorta, però, che mi mancava qualcosa, che volevo sentirmi più utile all'ambiente e mi sono licenziata in piena pandemia. Un colpo di testa azzardato perché era un momento difficile per trovare lavoro, ma ho partecipato a un bando pubblico per il dottorato sulla dispersione delle bioplastiche in ambiente acquatico. Ora sono a metà del percorso. Il mondo accademico è duro e selettivo, bisogna sempre aspettare il prossimo bando».

Parliamo di questo viaggio sull'Atlantico?

«Stiamo portando avanti un progetto sulla dispersione delle plastiche nell'ambiente acquatico e l'Università e la mia supervisor, la professoressa Lavagnolo, mi hanno dato l'opportunità di seguire questo progetto partendo dall'America, tutto in barca a vela. Ero l'unica ricercatrice dell'equipaggio e la sola donna, anch'io dovevo fare i turni di notte, la manovra sulle vele, il controllo del timone. Un'esperienza di vita oltre che di ricerca, eravamo sconnessi dal mondo. Ma non mi sono mai sentita in pericolo, certo ci sono stati giorni in cui il mare era molto grosso e si faceva fatica anche a stare sdraiati. L'obiettivo della ricerca era campionare le microplastiche per capirne l'abbondanza e la tipologia. Abbiamo usato due metodi diversi: un campionamento istantaneo con contenitori in vetro per l'analisi in laboratorio; un altro con uno strumento specifico che si chiama Rete Manta perché ricorda la forma del pesce, si tratta di una rete che intrappola le microplastiche dell'acqua. Due metodi diversi per conoscere meglio il Dna dell'acqua».

Come è stata l'esperienza in barca a vela?

«Era il mio tema di studio, una ricerca quasi calzata su di me. Serviva una persona giovane che potesse stare fuori due mesi: ho accettato subito quando mi è stato proposto. È stata un'esperienza tosta perché ero con persone che non conoscevo ed erano tutte più grandi di me, ma ho un forte spirito di adattamento. È stato bello confrontarsi con le loro esperienze. Quella in mare è una giornata diversa, apprezzi la lentezza, il momento più bello era il mio turno di notte, dalle 4 della notte alle 8 del mattino. Ho visto delle albe incredibili. Scrivevo il mio diario di bordo con il frontalino in testa, scrivevo quello che avevo fatto, ma anche le emozioni. Ho conservato il diario, non l'ho fatto leggere a nessuno».

Quali sono stati i primi risultati, in attesa di quelli definitivi?

«Ancora quelli completi non ci sono, ma le microplastiche ci sono. Vuol dire che ci sono frammenti di plastica più piccoli di 5 millimetri che arrivano dalla terraferma, dalla cattiva gestione dei rifiuti o dall'abbandono volontario, trasportati dai fiumi dove finiscono portati dal vento e dalle piogge. L'80% di quello che troviamo in mare viene dalla terraferma e di tutto quello che arriva in mare l'80 per cento è plastica. Il problema di questi frammenti è da una parte l'ingestione e il soffocamento degli animali acquatici fino a procurarne la morte; dall'altra, il fatto che le microplastiche vengono ingerite dalla fauna acquatica e si accumulano nella catena alimentare. Adesso si studiano le conseguenze sugli ecosistemi e sulla salute dell'uomo. Siamo pieni di plastica, ce n'è nel sangue umano, nella placenta. Nei pesci riduce la capacità riproduttiva e l'abilità di contrastare gli agenti patogeni. Il problema sono le nanoplastiche: le dimensioni sempre più piccole rischiano di entrare nei tessuti, negli organi, nel cervello».

Qual è la situazione dei mari italiani oggi? E cosa si può fare?

«Il Mediterraneo, come mare chiuso, ha minore capacità autodepurativa e l'inquinamento è più concentrato rispetto all'oceano. Bisogna limitare l'utilizzo della plastica, soprattutto quella monouso. La plastica non va demonizzata, ha molti aspetti positivi, lo si è visto nel Covid tra mascherine, guanti e strumenti di ogni genere. Il problema è il monouso, l'utilizzo di una cosa che viene subito scartata: i prodotti monouso sono quelli che si trovano maggiormente nei mari. Occorre sostituire questo materiale con altro meno impattante o riutilizzabile. Questo lo può fare il singolo cittadino, ma occorrono politiche specifiche. Dal 2019 è vietata la produzione e il commercio delle plastiche monouso. Una ricerca sui rifiuti nei canali di Padova ha dimostrato che su 500 chili di rifiuti analizzati, quasi la metà del peso è plastica».

A che punto è l'ambiente?

«Mi sento privilegiata a poter lavorare oggi in questo settore, adesso si sta incominciando a capire l'importanza dell'ambiente. Ognuno nel suo piccolo può avere un ruolo in questo cambiamento tale da renderlo orgoglioso. Il riscaldamento globale e gli eventi meteorologici estremi esistono e bisogna, intanto, ammetterne l'esistenza e da qui partire e cercare di adattarsi a una nuova situazione ambientale per non soccombere. Dobbiamo fare resilienza. A livello mondiale la consapevolezza c'è, l'ambiente è unico ma bisogna distinguere tra paesi industrializzati e sottosviluppati; i primi devono farsi carico anche per chi ha problemi. Il mondo è uno: ciò che finisce nell'Oceano Indiano arriva nel Mediterraneo. Le politiche non possono essere locali, ma globali. Bisogna creare una coscienza nella gente, vedo che i giovani hanno questa coscienza molto più della generazione dei miei genitori. Occorre incominciare dalle scuole elementari, se si insegna ai bambini che l'ambiente va rispettato, farlo diventerà una cosa normale».

Ultimo aggiornamento: 17:21 © RIPRODUZIONE RISERVATA

PIEMME

CONCESSIONARIA DI PUBBLICITÁ

www.piemmemedia.it
Per la pubblicità su questo sito, contattaci