L'ostetrica di Sanremo: «Io e miei 8mila figli senza essere mamma»

Domenica 12 Marzo 2017 di Edoardo Pittalis
Maria Pollacci a Sanremo
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Maria Pollacci è la prima ostetrica superstar nella storia della tv italiana. Che effetto fa salire sul palco del teatro Ariston di Sanremo, in pieno Festival della Canzone?
«Dovevo soltanto raccontare quello che sono, la vita di un’italiana normale. Al di là dell’emozione, che ci sta tutta anche alla mia età, dovevo essere me stessa. Li aveva colpiti questa storia che avevo fatto nascere quasi ottomila bambini. Sono venuti a prendermi e mi hanno riaccompagnata. Ero soprattutto preoccupata di rientrare in tempo per la nascita del mio nuovo “figlio” vicino a Cortina. È stato bravo, ha aspettato che io fossi ritornata».
Sembra una cosa facile a 92 anni?
«Non mi sento la mia età. Quando mi ricordano gli anni, ho l’impressione che non mi appartengano. Giro il numero, così anzichè 92 sono 29, un po’ pochi vero? Faccio ancora quello che facevo una volta. Vado a Modena in macchina a trovare i fratelli e i nipoti, guido io, conosco le strade».
Ottomila la chiamano mamma, ma lei non si è mai sposata?
«Ho avuto un grande amore ma a un mese dal matrimonio il mio fidanzato è morto di incidente stradale. Un altro fidanzato è morto di malattia, allora ho pensato che non fosse il caso di insistere e ho detto basta. Mi è mancato di essere mamma, ma sono mamma di tanti bambini che mi vengono a trovare, che portano i loro figli a salutarmi. Capita che quando vado in giro qualcuno esca fuori da un negozio gridando: ‘Ecco la mia seconda madre’. È da 72 anni che faccio nascere bambini».
Si ricorda il primo?
«C’era la guerra, la famiglia era sfollata nell’Appennino modenese, io ero freschissima di diploma. Sono stata chiamata per il parto, avevo paura, ero sola, dovevo arrangiarmi, ma il bambino è stato intelligente, ha capito che era meglio non fidarsi e che doveva nascere in fretta. Dopo 25 anni sono tornata in quel paese per la festa del patrono, ballavano in piazza, quando si è avvicinato un bel giovanotto: ‘Posso avere l’onore di ballare con l’ostetrica che mi ha aiutato a nascere?’. Ci troviamo ogni anno, quando vado in vacanza. Adesso anche lui è nonno».
Voleva fare l’ostetrica?
«Eravamo quattro fratelli, una famiglia di mezzadri. Un fratello ha studiato medicina ed è diventato chirurgo estetico, una sorella dalle suore per imparare a ricamare, un’altra per fare la parrucchiera. Mi sono iscritta alla scuola di ostetricia a Modena e lì ho capito che era la professione più bella del mondo, che aiutare a venire alla vita non ha paragoni. Da anni mi chiamano a insegnare all’Università di Verona per raccontare le mie esperienze alle future laureate che hanno tanta teoria e poca pratica».
È cambiata molto la professione?
«Anche le donne sono cambiate. Forse prima sopportavano di più il dolore. Una volta sono andata per assistere una signora che era al quindicesimo figlio. Più che del dolore, si preoccupava di preparare il pranzo a tutti i bambini. A un certo punto mi fa: ‘Adesso signorina penso sia ora’. E, infatti, un attimo dopo ha partorito».
Dall’Emilia al Trentino e poi al Veneto…
«Nel 1955 avevo vinto il posto all’ospedale di Cles dove nascevano 600 bambini all’anno, ho seguito anche parti di tre gemelli. Le donne stavano ricoverate due settimane, non era come oggi. Poi, nel 1964, ho vinto la condotta a Pedavena e mi sono trasferita. Era un altro mondo, mi spostavo in bicicletta, in montagna sempre a piedi. Il medico stava a venti chilometri di distanza, era giovane e si intendeva poco di ostetricia. C’era povertà, le donne si scambiavano la biancheria; feci mandare da mia madre lenzuola e asciugamani per distribuirli. Le donne partorivano in stanzette fredde, con i vetri che avevano il fiore di ghiaccio. Il bagno era fuori della casa, anche l’acqua. Si faceva il primo bagnetto al bambino accanto al camino. Ma non si è ammalato nessuno. Vittorio, il primo nato a Pedavena, oggi ha 52 anni. Il benessere in queste zone ha tardato ad arrivare, è stato negli anni dopo il Vajont, la tragedia ha portato anche il cambio del lavoro e una maggiore sicurezza quando la gente ha incominciato ad andare nelle fabbriche. Molti a Pedavena lavoravano già in birreria».
L’esperienza più singolare?
«Ero in ospedale a Cles, nel 1961, venne a prendermi il padrone del circo che era in paese per gli spettacoli, la moglie doveva partorire ma voleva farlo nel suo carrozzone. Il bambino nacque alle tre di notte, pesava 6 chili e tre etti. Gli artisti aspettavano fuori, alla notizia della nascita stapparono bottiglie di champagne. La nonna disse: “Sarebbe bello se domani sera la signorina entrasse nella gabbia dei leoni e presentasse il bambino al pubblico”. Pensai che scherzasse, invece per tutta la giornata girarono la zona con l’altoparlante annunciando che l’ostetrica sarebbe entrata nella gabbia degli animali feroci. Quando vennero a prendermi, avevo ripetuto a me stessa che non avrebbero mai messo in pericolo il bambino e, quindi, nemmeno me. Così la sera, al primo spettacolo, sono entrata col bambino in braccio nella gabbia dei leoni. Accanto al domatore, che era il padre, mi sentivo tranquilla. Al brindisi la vecchia leonessa salta giù inquieta dallo sgabello, in sala si alza un mormorio. “Non si muova” mi intima il domatore. E chi si muoveva? Finì tutto bene. Ma mio fratello mi telefonò per chiedermi se ero diventata matta».
Ha più visto il piccolo ercolino del circo?
«Dopo 50 anni l’ho rintracciato con Internet, faceva il domatore di tigri in Svizzera. Mi aspettavo un pezzo d’uomo, invece non era cresciuto più di tanto. Ci siamo trovati a Tessera, vicino all’aeroporto di Mestre, il fratello era lì col suo circo».
Una passione?
«I viaggi. Ho viaggiato molto con mio fratello, siamo stati nelle Americhe, in Africa. In Alaska c’erano distese di ghiaccio. Con l’idrovolante siamo passati in mezzo alle balene che erano in amore e si chiamavano l’una con l’altra».
Il suo piatto?
«I tortellini alla modenese e le tagliatelle. Naturalmente li preparo io».
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Ultimo aggiornamento: 13 Marzo, 08:33 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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