“Ecco come Draghi conquistò la Bce", Roberto Napoletano nel suo nuovo libro racconta l'ascesa dell'economista ai vertici della banca centrale europea UN ESTRATTO DEL LIBRO

Sabato 10 Dicembre 2022
Silvio Berlusconi, Mario Draghi e Roberto Napoletano

Nel nuovo libro di Roberto Napoletano "Riscatti e ricatti" (La Nave di Teseo) si racconta il miracolo nascosto che gli intrighi nazionali e internazionali hanno provato a bloccare. È il solco tracciato da Mario Draghi, quello di un’Italia credibile che conquista il podio europeo della crescita, tra le onde tempestose della grande guerra delle materie prime, dei ricatti di Putin sul gas e della fibrillazione mondiale dei mercati. Riscatti e ricatti si legge come il thriller della politica italiana e racconta il movente, l’arma e i colpevoli del draghicidio.

Un viaggio tra partiti intimoriti di perdere potere e lobby di burocrati affamati di rendite, dove i congiurati che tramano per ottenere un dividendo elettorale, Berlusconi e Salvini, rimangono beffati dalle urne. Un libro di fatti, tutti veri, in cui si intrecciano rivelazioni scottanti sugli interessi indiani e tedeschi in Russia, le critiche strumentali dei grillini, il peso degli investitori globali, il ruolo di Mattarella, un po’ Moro un po’ Pertini, l’arbitro che tiene insieme l’Italia. Le elezioni dell’autunno 2022 hanno portato alla vittoria di Giorgia Meloni, che può diventare la nuova Thatcher italiana, espressione di un compiuto e moderno conservatorismo, oppure vivere una ennesima, effimera, stagione di governo. Su questa scommessa si gioca buona parte del futuro del paese e in queste pagine Roberto Napoletano anticipa le sfide che il nuovo esecutivo dovrà affrontare, sottolinea i problemi più urgenti e smaschera gli inganni che rischiano, ancora una volta, di frenare la corsa dell’Italia.

Perché furono decisive le dimissioni di Axel Weber dal vertice della Bundesbank e perché contarono più il credito internazionale di Draghi, il ruolo della Merkel e di Napolitano e l'azione sotto traccia di Gianni Letta che non quello che poi fece in pubblico Berlusconi. Le esitazioni del governo italiano, il lavoro di Tremonti per bloccare tutto. Smentito con fatti, telefonate riservate e episodi inediti il racconto berlusconiano: ho fatto tutto io e draghi è un ingrato. La telefonata inedita di Napolitano di forte irritazione con Bini Smaghi e la coda polemica con Sarkozy che rischiava di fare saltare tutto.

L'ex presidente della Bce, a Palazzo Chigi, "non è stato un riformatore radicale. Ha gestito con la diligenza del buon padre di famiglia", scrive Napoletano. Poi, "c'è stato un problema reale di un coacervo variegato di soggetti, a volte molto distanti tra di loro, che ha lavorato alle spalle di Draghi, ma di cui si è parlato troppo poco". Napoletano fa riferimento "a una parte alta dell'amministrazione centrale e territoriale che ha l'atteggiamento di chi è abilissimo a spostarsi di lato in modo quasi impercettibile". Sono "10/15mila persone che si trovavano molto a loro agio con Conte e hanno posto in atto nell'ombra la rivolta dei feudatari". Perché "feudatari e mandarini di Stato, regioni e comuni sapevano che se il governo Draghi fosse riuscito a smantellare la feudalità delle corporazioni, che è il problema storico delle riforme in Italia, anche loro sarebbero finiti"

Pubblichiamo per concessione dell'autore un estratto del nuovo libro di Roberto Napoletano "Ricatti e ricatti. Il miracolo nascosto di Draghi, gli intrighi contro l'Italia e la scommessa di Giorgia Meloni", edito da La Nave di Teseo

Chi volle Draghi alla guida della BCE e perché ha ridato dignità all’Italia (da pag. 26 a pag. 31

Abbiamo avuto nel 2011 la fortuna che il presidente della Bundesbank, Axel Weber, non era in sintonia con il governo di Berlino, e fu costretto l’11 febbraio – dopo un vertice a tre con la cancelliera Merkel e il superfalco ministro dell’economia Schäuble – a lasciare la guida della banca centrale tedesca; formalmente fu una sua scelta, per motivi personali, ma il contrasto anche per il carattere rude e spigoloso del banchiere si rivelò insanabile. La Merkel sostituì Weber con un suo giovane consigliere economico, Jens Weidmann, che raccontano all’epoca sempre premuroso nei suoi confronti. Di fatto il ritiro di Weber spianò la strada a Mario Draghi. Dopo la nefasta presidenza della BCE di Trichet, la Merkel aveva rivendicato in tutte le sedi che quel ruolo toccava a un tedesco, ma ben presto si rese conto che né Weidmann di così fresca nomina né altri da lei immaginati erano candidabili con possibilità di successo e lanciò segnali inequivoci a favore di Draghi che, all’epoca, era governatore della Banca d’Italia e presiedeva il Financial Stability Board, ma soprattutto godeva della sua stima, rappresentava un paese meno ingombrante, aveva i requisiti per essere scelto e votato. Chi ha dato una mano importante, quando era necessario, per rimuovere ostacoli e diffidenze dei falchi tedeschi legati pregiudizialmente non a Mario Draghi ma alla sua italianità, è il capo dello stato, Giorgio Napolitano. Durante una visita ufficiale a Berlino il 25 febbraio del 2011, alla presenza di Angela Merkel, si esprime con queste parole: “Il governatore Draghi è un uomo di grande competenza e rigore, e vogliamo che la discussione sia libera da pregiudizi favorevoli o sfavorevoli sulla base della nazionalità di provenienza del candidato.” Il presidente tedesco Wulff, che gli è accanto, annuisce, e ribadisce: “la nazionalità non deve avere alcun ruolo.” 

Per capire il clima che si respirava in Germania, e perché Napolitano approfitta di questo incontro per lanciare un messaggio preciso ai falchi tedeschi in casa loro, basta raccontare un episodio avvenuto proprio il giorno prima. Quando il deputato socialdemocratico, Sigmar Gabriel, al Bundestag ha dovuto accusare il liberale ministro della difesa protagonista di uno scandalo con richiesta di dimissioni per aver copiato la propria tesi di laurea, ha urlato: “Lei, signor ministro, è come Berlusconi.” L’arrivo a Berlino di Napolitano era stato preceduto da un lungo articolo del Wall Street Journal, ampiamente ripreso dai media tedeschi, dovesi sosteneva che “la candidatura di Draghi non passa il test tedesco perché è italiano.” Non è un mistero per nessuno che, dopo la rinuncia del tedesco Axel Weber, il tabloid Bild aveva titolato: “Chi si occuperà ora dell’euro? Per favore non quest’italiano,” e tutto ciò perché “per gli italiani l’inflazione è come pomodoro sulla pasta.” E a rincarare la dose è sempre il WSJ che sottolinea che l’immagine dell’Italia “è precipitata a causa della sequenza di scandali sessuali e legali” legati al presidente del consiglio Berlusconi. Questo era il quadro internazionale di riferimento del momento che riguardava il nostro paese e che poteva nuocere in questa delicatissima partita. Napolitano ne è pienamente consapevole, però sa anche che, politicismi e razzismi a parte, nei circoli finanziari e tra i decision maker europei il nome di Draghi gode di alta considerazione e vuole premere finché gli è possibile su questo tasto al meglio che può. D’altro canto, questo lo riconosce anche il WSJ. E, soprattutto, questo vale per la Merkel che guida la prima economia europea e conta più di tutti.

Il 24 giugno – più di quattro mesi dopo l’annuncio delle dimissioni di Weber dalla guida della Bundesbank – il Consiglio europeo nominò Draghi alla presidenza della BCE. Essenzialmente lo fece per il credito internazionale della persona, che incontrava i favori di chi doveva votarlo ed era riconosciuto dalla Merkel come “una personalità interessante ed esperta”, non solo per quello che racconta il teatrino della politica italiana, che rivendica giustamente il merito della proposta Draghi e il risultato politico positivo dell’azione svolta di sostegno alla candidatura, ma dimentica manovre sottobanco e “coltelli affinati” usati per colpirlo alle spalle. Non è un mistero per nessuno la freddezza storica di Tremonti, all’epoca ministro dell’economia, nei rapporti con Draghi, così come è giusto sottolineare che durante il suo mandato di governo ha sempre sostenuto in pubblico questa candidatura italiana per la presidenza della BCE definendola eccellente. Resta il fatto che nei sotterranei dello stesso potere politico è stato necessario un grande lavoro di Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza del consiglio, e del capo dello stato, Giorgio Napolitano, perché non si sprecasse questa occasione storica per l’Italia perdendo tempo prezioso. Visto che sopravvivevano sott’acqua in casa nostra temporeggiamenti e resistenze di ordine culturale sulla persona mentre arrivavano valutazioni pubbliche di segno opposto proprio di ordine culturale sulla stessa persona dalla stessa cancelliera Merkel. Così come sarebbe ingiusto non riconoscere il lavoro diplomatico fatto dall’allora premier italiano, Silvio Berlusconi, con gli altri capi di governo, uno a uno, per sostenere la candidatura italiana. Fu fatto un lavoro scrupoloso, in un contesto generale molto ben disposto per il consenso internazionale che si era costruito sulla persona. Tutto ciò permise a Berlusconi di avere gioco facile nel comunicare alla Merkel – aveva in mano carte meno pesanti di Draghi da mettere sul tavolo – e a Sarkozy – non poteva pretendere la successione di un francese con un altro francese – che il nome italiano aveva già la maggioranza dei voti per essere eletto presidente della BCE. 

Un lavoro intenso che portò anche la coda velenosa di polemiche con un Sarkozy sempre arrogante, perché Lorenzo Bini Smaghi, membro italiano del board della BCE, tardava a ritirarsi per lasciare posto a un rappresentante francese nonostante gli impegni assunti pubblicamente con lui dallo stesso Berlusconi. Ci furono da parte di Bini Smaghi prima una resistenza poi una trattativa ad personam su seggiole e poltrone che, indipendentemente dai toni sempre fuori misura di Sarkozy, espose l’Italia a una brutta figura che poteva produrre anche danni maggiori e che suscitò l’irritazione del capo dello stato, Giorgio Napolitano. Ricordo una telefonata con lui che avvenne casualmente nello stesso giorno in cui ero stato a pranzo con Bini Smaghi a Milano. Mi colpirono in quella conversazione il tono e la fermezza della condanna di quei comportamenti per l’assenza totale riscontrata di senso delle istituzioni da parte di Bini Smaghi. Resta il fatto che si è incappati nell’assurdo totale di una scelta ai massimi livelli europei molto ben orientata a favore di Draghi, e delle solite esitazioni di casa nostra che rischiavano di fare saltare tutto. Non fu così, per fortuna, e abbiamo avuto in mani italiane la guida del governo dell’unica Europa esistente, che era quella della moneta: per una volta è toccata proprio all’Italia la poltrona più importante in Europa. Quella moneta, poi, è finita sotto attacco e a rischio scissione, con un euro di serie A e uno di serie B e con due paesi come Italia e Spagna che sono arrivati a un passo dal default sovrano con il primo cigno nero della loro storia. Abbiamo avuto la fortuna, come italiani, che Draghi ci ha fatto fare bella figura agli occhi del mondo. Ha salvato l’euro da solo contro tutti ed è entrato nella storia come il più grande dei banchieri centrali dell’ultimo mezzo secolo. Questo stesso signore ha fatto benissimo al governo con la pandemia e con l’economia e si è messo al servizio del suo paese ridando all’Italia la dignità smarrita da tempo, ma partiti e partitini morivano di fatto dalla voglia di sbarazzarsene e alla fine ci sono riusciti. Per molti dei parlamentari italiani Mario Draghi è l’alieno, non l’uomo che ha fatto il bene dell’Italia in tutti i ruoli che ha avuto. I capi partito hanno avuto paura di un giocatore forte, e hanno ritenuto che dal Quirinale avrebbe annullato i primi ministri pro tempore italiani. Per fortuna, il parlamento ha dimostrato di essere più avanti dei capi partito: ha avuto sì paura dell’alieno – si paga un lavoro non fatto da parte di chi sta intorno a Draghi per spiegare chi è e rimetterlo sulla terra – ma ha anche avuto l’illuminazione di chiedere aiuto a Mattarella perché preservasse l’alieno, in modo da farlo con- tinuare a fare il bravo giocatore per loro e per tutti gli italiani. E Draghi lo ha fatto anche nel disbrigo dei cosiddetti affari correnti, perché altri aiuti per oltre 31 miliardi con interventi strutturali e decreti attuativi del Piano nazionale di ripresa e resilienza tutto sono fuori che affari correnti. Resta il dato politico che i parlamentari hanno voluto preservare la stabilità al massimo livello chiedendo l’enne- simo sacrificio a un capo dello stato come Mattarella, che ha fatto la storia del paese giocando la carta estrema Draghi quando la politica implodeva. Mattarella aveva chiesto un sacrifico a Draghi, poi parlamento e Draghi hanno chiesto lo stesso sacrificio a Mattarella. Perché nel nuovo ’29 mondiale sanitario ed economico tutto possiamo permetterci meno che giocarci la credibilità riconquistata.

Ultimo aggiornamento: 21:34 © RIPRODUZIONE RISERVATA