Coronavirus, centenaria racconta: «Ecco come si viveva ai tempi della Spagnola»

Domenica 29 Marzo 2020 di Ilaria Bosi e Italo Carmignani
Coronavirus, centenaria racconta: «Ecco come si viveva ai tempi della Spagnola»
Un salto indietro nel tempo, 101 anni esatti: quanto basta per ricordare l’ultima grande influenza che ha messo in ginocchio il mondo. La chiamavano la Spagnola, perché a parlarne – inizialmente – erano soltanto i giornali iberici, visto che la Spagna non era coinvolta nel primo conflitto. Nonna Pupetta, al secolo Marsilia Frizza, è nata in Umbria il 26 febbraio 1919, proprio in uno dei momenti più difficili di quella pandemia, di cui ricorda a malapena i racconti della mamma, ma che ha segnato la sua vita per sempre.

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Pupetta, che i nipoti chiamano "Roccia", da poche settimane ha soffiato le 101 candeline e ora si ritrova chiusa in casa per evitare il contagio:
«In pratica – dice col sorriso beffardo - siamo tornati indietro. Ho vissuto la guerra, la povertà e tante altre sventure nel corso della mia vita e ora mi ritrovo nel bel mezzo di una pandemia, proprio come quando sono nata. Certo, nel 2020 fa più effetto».
Cosa ha significato per voi quella Influenza del 1919?
«Io non la ricordo direttamente – racconta nonna Pupetta – perché ero troppo piccola. Ma i suoi effetti li ho portati dietro per tutta la vita».
In che modo?
«Avevo all’incirca 6 mesi quando mio padre Antonio è morto, proprio per la Spagnola. Quella grande influenza mi ha tolto, quindi, una delle figure più importanti della mia vita, segnandomi per sempre».
Quali ricordi sono rimasti?
«Non ho mai conosciuto papà, ma da 101 anni sono conosciuta da tutti come Pupetta, prima ancora che con il mio nome di battesimo: Pupetta, infatti, era il nomignolo con cui mi chiamava papà nei pochi mesi in cui mi ha potuto cullare. E quel nomignolo è rimasto per sempre».
La mamma cosa raccontava?
«Nei racconti di mamma quell’influenza veniva sempre accostata alla parola sterminio: morirono davvero tante persone, anche vicine a noi. Erano altri tempi. Mia madre rimase sola con cinque figli piccoli e poco dopo, come succedeva all’epoca, sposò il fratello di mio padre. Così a crescermi e a darmi altri fratelli e sorelle è stato mio zio».
Le difficoltà?
«La povertà, soprattutto».
Vissuta come?
«Semplicemente lavorando. Avevo 9 anni quando mi mandarono a servizio da una famiglia facoltosa. Ricordo quanto fosse difficile, d’inverno, fare il bucato nell’acqua gelida del torrente. Con quelle manine piccole afferravo una pietra e rompevo il ghiaccio che si formava in superficie, per poter prendere l’acqua. Oltre al bucato e alle faccende, accudivo i figli di quella famiglia e spesso accompagnavo gli adulti nei mercati, dove vendevano stoffe».
Poi la seconda guerra mondiale...
«La povertà mi ha accompagnato a lungo, ma quello della guerra è stato uno dei periodi più difficili. Mi ero sposata da poco e nel ’43, a 24 anni, ho avuto la prima figlia. Il secondo è arrivato nel ’45: in tutto sono diventata mamma 5 volte e nel corso della mia vita ho patito grandi lutti».
Come ci si rialza dalle difficoltà?
«Sempre lavorando. Io non ho mai smesso, sia in casa che fuori. Dai primissimi anni ’60, poi, ho aiutato i miei figli e sono diventata per decenni, insieme a loro, la fornaia del paese, a Castel Ritaldi. I primi anni sono stati durissimi: eravamo indebitati e mio marito si arrabbiava con me perché sostenevo il progetto dei miei figli, che erano adolescenti. Perché lo facevo con tanta tenacia? Sono sempre stata una tosta, ma in quel caso insistevo perché non volevo che i miei figli andassero sotto padrone, cioè dovessero lavorare alle dipendenze di altri. All’epoca c’erano i padroni, non i datori di lavoro».
L’idea di questa nuova pandemia che effetto fa?
«Adesso i tempi sono cambiati. Stare a casa, ancora più alla mia età, non è poi così faticoso. Poi ci sono tutte le comodità: di fame non si muore! Siamo fiduciosi che si trovi presto una cura e speriamo che questa situazione passi presto, facendo meno danni possibili».
 
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