Il generale Bellacicco: «Herat, modello
per la sicurezza dell'Afghanistan»

Giovedì 17 Febbraio 2011 di Umberto Sarcinelli
Il generale Bellacicco (a destra) insieme al generale Petraeus
HERAT - Herat sta diventato pi destabilizzante per i talebani di un bombardamento. Il generale Marcello Bellacicco, comandante della regione Ovest dell’Afghanistan e della Brigata alpina Julia Mlf che ne da alcuni mesi la base operativa, fotografa efficacemente con una battuta il lavoro svolto finora dal contingente italiano.



Comandante, un bilancio positivo, quindi?

«Si, perchè abbiamo allargato la nostra presenza, abbiamo mantenuto l’iniziativa in un inverno che è stato meno impegnativo dal punto di vista climatico di quello che ci aspettassimo. Abbiamo continuato a allargare le aree di sicurezza. Ci sono state contrapposizioni dure, a fuoco, a Bala Murghab e in Gulistan. Aver assicurato la riapertura del mercato di Bakwa è un successo fondamentale, che inizia un percorso nuovo. Di positivo c’è stata anche una condotta militare non estensiva, ma mirata, come la cooperazione con le forze afghane che ha portato alla cattura degli insorti e non solo alla loro eliminazione. Positiva poi è stata l’opera di intelligence e di pianificazione. E naturalmente il Prt, costituito dal 3° artiglieria da montagna, che ha ulteriormente migliorato la già positiva attività svolta dalla Taurinense, tessendo eccellenti rapporti con le autorità locali, ha raggiunto tutti gli obiettivi del 2010 e già avviato quelli per il 2011, pianificando con le autorità regionali educazione, sanità e infrastrutture. Il Prt ha consacrato la funzione di modello da seguire per tutti gli altri Prt per quanto riguarda interfaccia con i locali, equilibrio, controllo esecutivo e chiusura dei lavori. Gli elogi di Petraeus sono significativi».



La missione è estremamente delicata e rischiosa, in un periodo oltretutto particolare e fondamentale per l'Afghanistan, con l'insediamento del nuovo parlamento e i successi che la nuova strategia Nato sta avendo sul terreno. Purtroppo questo implica un doloroso conto delle perdite.

«E questo indubbiamente è il lato negativo. Questa missione è la più complessa e rischiosa che sia stata fatta dall’esercito italiano, per situazione operativa, dinamica e rischi. L’area non è semplice e non ci sono raffronti precedenti, ma devo sottolineare la maturità professionale dei miei uomini, che è emersa in tutto il suo valore soprattutto nelle situazioni difficili, nella gestione di momenti veramente critici. Alla partenza da Udine ero consapevole della preparazione raggiunta dalla brigata, ma qui mi sono sorpreso dalla serenità e consapevolezza degli uomini. Lo si è visto negli ultimi episodi luttuosi. Non è comune che il plotone di Matteo Miotto voglia rimanere in posizione fino alla fine del turno, mentre normalmente viene avvicendato per motivi psicologici. E il plotone di Sanna e Barisonzi il giorno dopo è rimasto nella Cop e ha condotto un’azione di riconoscimento di due civili assieme ai militari afghani. Questo è indice di grande maturità professionale, appunto. Altri avrebbero ceduto all’istinto, avrebbero risposto violentemente, creando situazioni ancora più difficili e incontrollabili. Invece la risposta è stata esemplare, controllata e professionale».



La Julia si è preparata con molto scrupolo e attenzione a questa missione, non tralasciando nulla nell'addestramento e nella conoscenza di nuove tecniche, mezzi e materiali. Vista a posteriori c'è qualcosa che cambierebbe nella preparazione?

«No, a parte l’esperienza maturata finora. L’Afghanistan è un teatro in evoluzione molto rapida. Anche la minaccia Ied (ordigni esplosivi improvvisati, ndr) si evolve. Abbiamo fatto gran tesoro dell’esperienza della Taurinense e siamo riusciti a affrontare sempre bene la minaccia».



Un altro aspetto è dato dai rapporti con la popolazione.

«Abbiamo incentivato i rapporti di collaborazione, portando stabilità al territorio, costruendo le cose che servono al loro sviluppo, mantenendo la sicurezza. Nelle zone sensibili, a Nord e a Sud, dove non siamo ancora arrivati nei villaggi, la sensazione è che l’atteggiamento degli abitanti sia di timore verso gli insurgents e non di adesione concettuale. Stiamo realizzando un fondamentale acquedotto in una zona che classifichiamo "rossa", molto pericolosa».



L'attività di contro-insurrezione richiede sempre più assetti multiarma. Quali sono, secondo lei, quelli fondamentali?

«Comando e controllo, fino ai più bassi livelli. Con la tecnologia che possediamo questo è realizzabile ed è il vero segreto tecnico. Il maresciallo a Bakwa riesce a gestire il Predator che a dieci chilometri da lì sorveglia un convoglio, e dialoga con l’Amx capace di inviare immagini a altissima risoluzione. Poi c’è la terza dimensione, quella aerea, la componente elicotteristica per il trasporto logistico, il supporto al combattimento dei Mangusta, gli aviolanci. E tutto questo con una componente umana d’eccellenza. Uomini motivati, solidali, amalgamati, che non si tirano mai indietro, che sono consapevoli della loro missione, dall’ufficiale al volontario. È fondamentale che in un assetto interforze ci si conosca e ci si comprenda. Ho visto piloti di C-130 fare cose che potevano non fare in quelle condizioni, ho visto uomini non lamentarsi per un mancato rifornimento, perchè ci si capisce, si sa che tutti danno il massimo».



Il momento più difficile per un comandante è sicuramente quando ci sono delle perdite umane.

«Quando qualche ragazzo va, il dolore è immenso, per un comandante è un momento difficilissimo, perchè deve pensare anche a quelli che sono rimasti, e che continuano a essere "fuori", esposti al rischio».



E il momento più bello?

«Quando sono in mezzo ai miei ragazzi e li vedo sereni che lavorano, quando li vedo motivati, con l’orgoglio di lavorare. I riconoscimenti di Petraeus ti fanno diventare orgoglioso; quando vedi che un tuo colonnello spiega al comandante in campo l’attività che fa e questi annuisce interessato e soddisfatto: sono momenti di soddisfazione. Ma è tutto merito del personale. Il comandante da indicazioni, loro le traducono in realtà».



Secondo l'esperienza maturata finora che speranza ha l'Afghanistan e in particolare la regione di Herat di tornare almeno a una normalità?

«Herat è un caso particolare, sotto gli occhi di tutto l’Afghanistan e della comunità internazionale. Pochi giorni fa abbiamo avuto la visita di ben quattro ambasciatori americani. Vogliono rendersi conto di come lavora il Prt e come funziona la sicurezza. Herat va tutelata perchè è una realtà trainante. La strada che abbiamo tracciato rende credibile il periodo 2001 -20014 per il trasferimento della responsabilità al governo afghano, lavorando shona ba shona, fianco a fianco, come si dice qui. Abbiamo imboccato un binario giusto, l’aeroporto avrà un terminal civile e presto sarà internazionale, la ricostruzione è avviata, il processo di modernizzazione anche. Certo va ancora tutelato militarmente dai colpi di coda degli insurgents, ma come dicevo, Herat sta diventando per i talebani più destabilizzante di qualsiasi azione armata».
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