Grazie al lavoro degli italiani, Herat sarà
la provincia che tornerà per prima agli afghani

Lunedì 10 Gennaio 2011 di Umberto Sarcinelli
Una veduta di Herat
UDINE (10 gennaio) - Perch l’Italia in Afghanistan con un contingente militare? Che previsioni si possono fare sulla fine di questa delicata missione? E qual la situazione reale attuale? Le domande sono ricorrenti nell’opinione pubblica, specialmente dopo la morte del caporal maggiore Matteo Miotto, del 7 reggimento alpini della Julia e sono rilanciate quotidianamente dai commenti dei lettori del sito internet del Gazzettino che sta dedicando alla missione in Afghanistan questo spazio molto apprezzato e letto.



Il nostro impegno nel "paese del vento", come è chiamato in lingua farsi, ha origine dalla risoluzione numero 1386 del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, Onu, del 20 dicembre 2001 con la quale ha autorizzato il dispiegamento nella città di Kabul ed aree limitrofe, di una Forza multinazionale denominata International Security Assistance Force (ISAF), con il compito di assistere le istituzioni politiche provvisorie afgane a mantenere un ambiente sicuro, nel quadro degli accordi di Bonn del 5 dicembre 2001. L'11 agosto 2003 la responsabilità delle operazioni è passata alla Nato e in questo momento alla missione partecipano militari di 38 nazioni. Dal comandante di ISAF, il generale David H. Petraeus, attualmente dipendono i cinque comandi Regionali North, West (quello affidato alla Brigata Julia), South, East e Capital, oltre ad assetti aerei, elicotteri, forze di riserva, forze speciali ed unità di supporto. Inoltre, nell’ambito di ciascun Comando Regionale operano più Provincial Reconstruction Team (PRT), organizzazioni miste militari e civili che hanno il compito di creare un ambiente stabile attraverso un processo di ricostruzione socio-economica del paese.



La missione in Afghanistan di Isaf è stata concepita in quattro fasi: analisi e preparazione; espansione, (suddivisa, a sua volta, in quattro tempi che ricalcano le aree); stabilizzazione; transizione e rischieramento. Attualmente siamo nella fase della stabilizzazione che porta alla trasferimento dei compiti di sicurezza all’esercito e alla polizia afghana e a quelli di ricostruzione al Governo di Kabul, sempre con il supporto degli organismi internazionali. È una fase delicata e la regione di Herat, affidata all’Italia, è la più vicina a rispettare le scadenze e in qualche modo ad anticipare i risultati positivi. La creazione della bolla di sicurezza nella provincia di Bagdhis, a Bala Murghab, con il rientro di circa 2000 persone, il livello di addestramento e operatività raggiunto dal 207° corpo d’armata dell’Ana, la buona preparazione della polizia (grazie agli istruttori dei Carabinieri), il lavoro della Guardia di Finanza (operazione bilaterale Grifo) per addestrare e far funzionare dogane e guardia di frontiera, l’opera dei Prt, a cominciare da quello di Herat costituito dal 3° artiglieria da montagna di Tolmezzo sono solo alcuni dei risultati raggiunti.



«Ma quello che più conta - spiega il colonnello Pio Sabetta, udinese, responsabile del Cimic, cooperazione civile militare - è il sempre maggiore consenso che riusciamo a far convergere sull’amministrazione governativa. Ogni nostra operazione è concordata con il governatore di Herat e ogni nostro intervento figura come un intervento del governo. Il nostro scopo è quello di fare in modo che siano le amministrazioni locali a indicare le necessità e quindi a realizzarle, con il nostro aiuto».



L’Afghanistan è un paese che ha molte potenzialità, possiede miniere di alluminio, di stagno, di "terre rare", metalli strategici per l’informatica, pietre preziose, depositi di gas naturale e petrolio. Ha cave di marmo molto pregiato, in certi casi superiore per qualità a quello di Carrara (e le macchine italiane per l’estrazione sono richiestissime). Anche l’agricoltura ha grandi prospettive. La regione di Herat non è senza acqua, anzi, la coltivazione di zafferano, oltre a essere alternativa economica all’oppio, ha grandi possibilità.



«I problemi sono ancora molti e seri - continua Sabetta - mancano totalmente le infrastrutture, non ci sono ferrovie. Il prolungamento della linea da Teheran a Herat sarebbe facilmente realizzabile, ma è ostacolato da complicazioni politiche, a nord la ferrovia turkmena arriva a tre chilometri dal confine. L’aeroporto di Herat potrebbe fra poco diventare internazionale. C’è anche da ricostruire totalmente la formazione di una classe dirigente e tecnica, ricreare un processo decisionale, fondamentale per la transizione e il ritiro graduale delle truppe». A Herat esiste un’università che accoglie 7.500 studenti, ma il sistema scolastico di base è tutto da ricostruire, anche se moltissimi è stato fatto grazie ai Prt.



«I tempi di ritiro? Non sono ipotizzabili al momento - conclude Sabetta - Karzai vorrebbe accelerare il rientro dei militari, ma molto resta ancora da fare». In realtà nella provincia di Herat le cose procedono più speditamente che altrove. Sarà, grazie al lavoro dei militari italiani la prima provincia a passare sotto il controllo afghano, a cui seguirà, molto probabilmente quella di Bagdhis, mentre le province meridionali, Farah e Ghowrl sono un po’ più indietro in questo processo.
Ultimo aggiornamento: 7 Aprile, 18:53 © RIPRODUZIONE RISERVATA