Piantonato a Beirut in ospedale:
è battaglia contro l'estradizione

Sabato 10 Maggio 2014 di Marco Ventura
Piantonato a Beirut in ospedale: è battaglia contro l'estradizione
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ROMA - Dignit assoluta per una sentenza ingiusta. Questa la reazione che filtra da Beirut, a caldo, dalla famiglia di Marcello Dell’Utri.

Delusione ma in un clima di fatalismo. E la determinazione a dare ancora battaglia, dopo vent’anni e quasi mille udienze. A non arrendersi per quella che viene percepita e vissuta con dolore come «un’ingiustizia».



LA MOGLIE AL SUO FIANCO

Marcello Dell’Utri è ricoverato nell’ospedale Al-Hayat di Beirut Sud dov’è stato trasferito il 16 aprile per vigilare sui postumi di un’operazione di angioplastica. Il suo primo carcere era una cella del quartier generale dell’intelligence della polizia. È nella sua stanza d’ospedale, formalmente detenuto, con al fianco la moglie Miranda, che apprende dagli avvocati la notizia della conferma in Cassazione della condanna a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Sperava in un imprevisto, un intoppo finale l’ex senatore e cofondatore di Forza Italia. Se la sentenza fosse stata annullata, Dell’Utri sarebbe stato di fatto già libero. Ma anche adesso, non è detto che la magistratura libanese e il ministro della Giustizia di Beirut accolgano la richiesta di estradizione appena arrivata dall’Italia, col corredo di tutte le traduzioni chieste dai libanesi in francese e parzialmente anche in arabo.



IN TUTA E BARBA LUNGA

Dell’Utri tiene sul comodino la Divina Commedia, i suoi libri. L’ultima volta è stato visto all’arrivo in ospedale con la barba lunga, una polo a maniche lunghe di lana blu, e la tuta. Stanco, provato. Con quell’aria all’apparenza rassegnata e fatalista che lo accompagna da anni. Sa bene, Dell’Utri, che la sentenza della Cassazione non chiude, ma apre, il capitolo dell’estradizione. I suoi avvocati libanesi, ben introdotti nelle famiglie che contano nel governo, di origini sciite ma con agganci importanti nel sistema di potere cristiano-maronita, hanno già individuato i talloni d’Achille della posizione italiana. Anzitutto la congruità del reato, concorso esterno in associazione mafiosa, con un analogo reato del codice penale libanese. Poi i risvolti politici che i legali possono teoricamente rivendicare come motivo per un diniego libanese. Infine, la tempistica, la prescrizione secondo le scadenze della giustizia locale.



GUARDATO A VISTA

Per il momento, Dell’Utri resta però in ospedale. Guardato a vista. Quando ci è arrivato, avevano colpito la sua stanchezza e il fatto di essere «accompagnato» da una scorta di quattro poliziotti armati di mitragliatori M1. I tempi per la decisione non sono fissati per legge. Il criterio è la rapidità. Beirut dovrebbe decidere nel minor tempo possibile. Ma il concetto è vago. Ci potrebbero volere mesi. Il mandato d’arresto internazionale scade lunedì, la richiesta di estradizione è arrivata e adesso c’è anche la conferma della Cassazione da allegare. Una corsa contro il tempo perché lunedì 12 maggio scade il fermo e tutto il fascicolo dovrà in quel momento essere pronto e confezionato. I magistrati libanesi dovrebbero a quel punto decidere se prolungare la detenzione e come. Gli avvocati potrebbero chiedere invece la liberazione per l’inaccettabilità della richiesta italiana, in violazione del Trattato. La battaglia legale si sposta a Strasburgo contro la sentenza, a Beirut prosegue quella per uscire di carcere e non rientrare in Italia. «Mi vogliono in galera», aveva detto sconsolato Dell’Utri in una delle sue ultime apparizioni televisive.
Ultimo aggiornamento: 09:33