A Herat, dove Italia significa qualità:
tecnologia importante, uomini essenziali

Lunedì 27 Dicembre 2010 di Umberto Sarcinelli
Il generale Petraeus e il generale Bellacicco
HERAT (27 dicembre) - Fare le cose "all’italiana" qui a Herat non ha lo stesso significato che in Europa. Anzi, esattamente l’opposto. Qui, in mezzo alla polvere del deserto, a un’umidit pari a zero, in uno degli snodi dell’antica via della seta, citt-capitale del regno persiano, "all’italiana" non vuol dire faciloneria, pressappochismo, furbate, meschinerie.



"All’italiana" nella regione di Herat, attualmente a responsabilità della brigata alpina Julia Mlf, comandata dal generale Marcello Bellacicco, significa cose fatte bene. Vuol dire spendere correttamente i soldi dei programmi di aiuto alle comunità, garantire la sicurezza degli abitanti, combattere con decisione gli insurgents. Significa farsi rispettare dagli alleati, amare dalla popolazione e temere dai nemici.



Non è una missione semplice questa. C’è un aspetto militare che tutti tendono a sfumare, fino a negare in maniera ipocrita. C’è la ricostruzione, anzi, la vera a propria costruzione di un paese-mosaico. Ci sono equilibri internazionali sempre sul filo del rasoio. Il generale Marcello Bellacicco, comandante della Julia ha un grande ascendente sui suoi uomini. Parla chiaro, pretende molto, ma è limpido e diretto. Grande senso pratico e quel feeling con il soldato che si trasforma in una leadership naturale: «Abbiamo costituito la bolla di sicurezza nella valle di Bala Murghab, dove c’è l’ottavo alpini, che ha consentito il rientro di duemila persone che vi erano state scacciate. Conclusa l’operazione "Buongiorno", appunto la realizzazione della bolla, abbiamo subito avviato la "Bazare Arad", per allargarla ulteriormente. Il Prt, su base 3° artiglieria da montagna di Tolmezzo, sta lavorando in maniera eccellente ed è diventato un esempio di come far rendere al massimo gli investimenti e le donazioni. A sud abbiamo preso il controllo di una Fob (Forward operation base) che era degli americani. Il 7° di Feltre sta svolgendo un lavoro esemplare. Il 5° reggimento ha appena concluso un’operazione molto delicata di trasporto materiali con successo, nonostante i continui attacchi subiti. Il "nostro" quinto reggimento, i lagunari della "Serenissima", si sono integrati perfettamente e sono entusiasta di loro...».



Già. Alla partenza dall’Italia il generale aveva chiesto a un lagunare il suo fazzoletto da collo dicendo che lo avrebbe conservato nello zaino. «Ho rivisto quel lagunare alla Fob e l’ho salutato, un bravo ragazzo». La situazione sul terreno è in continuo movimento. I Tic (troup in contact) sono frequenti. Si spara. Gli alpini cercano di rendere sicure strade e vallate, conquistando metro dopo metro, villaggio dopo villaggio aree dove poter dare una futuro sicuro a questo paese.



Gli alpini sanno combattere bene, con durezza e discernimento. Primo non fare vittime civili. Non è facile con terroristi che si mimetizzano fra la popolazione, che si spostano su strade impossibili con le ormai mitiche Pamir, motociclette cino-indiane che riescono ad andare dappertutto (e che costano 500 euro). Ma l’addestramento è stato eccellente. I nostri tiratori scelti sono considerati i migliori, gli americani hanno chiesto agli alpini le loro tabelle di tiro, più precise e complete. L’arma più insidiosa è lo Ied, gli ordigni esplosivi improvvisati. Dove quell’"improvvisati" va corretto. È tutto studiato. Arrivano le motorette, scaricano qualcosa, qualcuno scava un fossato, lo riempie con quel "qualcosa", qualcun altro stende i fili elettrici, uno pone dei riferimenti, un altro si mette con il telecomando in postazione. Vengono fatte passare le pecore, per confondere le tracce di quanto avvenuto agli occhi elettronici del Predator e degli Amx. Quando passa il convoglio, scatta la trappola esplosiva. Il Lince resiste bene, il Cougar meglio, i nuovi mezzi americani ancora di più, gli autobus civili vengono invece massacrati. E quando non c’è il telecomando, ma il dispositivo a pressione, la tecnica dei terroristi si fa più raffinata. Il dispositivo non viene messo sopra l’esplosivo, ma un poco più avanti, in modo che lo scoppio sia ritardato: non nell’avantreno, sulle ruote, ma al centro dell’abitacolo. Quando questo capita a un autobus, le vittime si moltiplicano.



Gli insurgents si sentono accerchiati, vedono ridurre i loro spazi di manovra e soprattutto di affari e allora reagiscono contro i militari della coalizione. Ma chi sono questi insurgents? Certo, i talebani, gli studenti delle scuole coraniche che hanno sconfitto i russi e riportato l’Afghanistan al Medioevo, ma ci sono anche i qaedisti, i seguaci di Bin Laden che provengono da tutto il mondo musulmano e vogliano la guerra totale all’occidente crociato, ci sono anche le bande tagike dei trafficanti di ogni cosa, dalla droga alle armi, i signori della guerra uzbechi, pasthun, harari che vogliono mantenere il loro potere tribale. E in mezzo a tutto questo infiltrati, doppiogiochisti, servizi segreti, in un "grande gioco" che ha come posta i tesori dell’Afghanistan: alluminio e stagno, terre rare come l’iridio, marmi pregiati, gas naturale e forse petrolio.



Ma come sta andando questa guerra? Chi la sta vincendo? Non è facile rispondere. «Quello che stiamo facendo noi italiani a Herat - spiega il generale Bellacicco - è diventata in buona sostanza la "dottrina Petreus" e il nostro lavoro è portato a esempio per tutto l’Afghanistan. Questa è una guerra che non si vince solo con l’impegno militare, ma con lo sforzo di tutti per ridare una speranza di sviluppo a questo paese. I nostri soldati hanno la cultura, la mentalità, la preparazione e la sensibilità per avere successo». Un paese complesso, una situazione difficile e intricata automaticamente non presuppone una risposta altrettanto complicata.



La coalizione dispone di mezzi altamente sofisticati. I droni, i velivoli senza pilota, vedono e registrano tutto, interpretano il minimo segno rivelatore di un terreno smosso, di una inavvertibile variazione nel colore del terreno. Gli Amx italiani, quelli con base a Istrana, hanno appena montato un nuovissimo Pod che consente riprese super precise elaborabili con i più avanzati sistemi. Le parabole dei satelliti captano ogni onda elettromagnetica, le antenne degli apparati elettronici intercettano, misurano, comunicano tutto. La logistica militare è imponente. Camp Arena a Herat ha servizi totalmente autonomi e continui rifornimenti dalla base di al-Bateen, a Abu Dhabi.



Non manca nulla ai nostri militari. Internet funziona, si captano i programmi italiani, con Skype ogni sera tutti si collegano in video conferenza con le rispettive famiglie. E chi ha la fortuna di lavorare accanto agli americani può usufruire delle loro celebre posta. Un acquisto su internet arriverà in pochi giorni grazie all’UsPost. Ambulatori, infermerie, ospedale sono a livello eccellente. Ogni base ha la sua palestra e i suoi bar e i suoi PX (negozi). Aerei e elicotteri fanno spola continua.



Ma tutto questo imponente apparato tecnologico e logistico non basta a vincere questa guerra, a affrontare i conflitti asimmetrici. C’è bisogno del "piede a terra", del soldatino che rischia e si sacrifica duramente per la sicurezza di un villaggio, del soldatino che parla con la popolazione, che spara solo sul nemico, che mette in gioco la sua vita. «Già, c’è bisogno dei miei uomini, degli alpini - commenta il generale Marcello Bellacicco - che vadano sul posto, che scavino la trincea, che stiano attenti a tutto, che combattano al meglio, che convincano gli Elder, i capi villaggio, a intraprendere la via dello sviluppo, che aiutino donne e bambini, che li curino e difendano. C’è bisogno dell’uomo, dell’alpino. È a loro che occorre dare il massimo apporto e sostegno e avere la massima considerazione. E dare la giusta visibilità».
Ultimo aggiornamento: 2 Gennaio, 09:11 © RIPRODUZIONE RISERVATA