Fabrizia Giuliani, filosofa del linguaggio: «Parole sbagliate e stereotipi. La violenza non si racconta così»

Domenica 10 Aprile 2022 di Maria Lombardi
Fabrizia Giuliani, filosofa del linguaggio: «Parole sbagliate e stereotipi. La violenza non si racconta così»

«Se noi oggi abbiamo una lingua che ancora fatica a raccontare la libertà delle donne è perché di fatto le donne non sono ancora tanto libere», avverte Fabrizia Giuliani, professoressa di Filosofia del Linguaggio all'università Sapienza di Roma. Le parole hanno un grandissimo peso: quelle che diciamo e quelle che ci mancano. A volte sono trappole in cui cadiamo senza rendercene conto. Nella lingua sono riflessi i nostri pensieri così come i pregiudizi e gli stereotipi di cui siamo ancora prigionieri.
LE CARICHE
Come si parla oggi di donne? «Sicuramente meglio oggi di come si parlava anni fa», spiega la docente nel podcast del Messaggero L'una e l'altra, oggi online. «Nel nostro vocabolario sono entrati termini comuni un tempo osteggiati, mi riferisco alle cariche istituzionali. Oggi i titoli ministra o sindaca sono accettati quasi al 100 per cento. Così come la parola femminicidio, fino a 10 anni fa considerata brutta, cacofonica».
Eppure si continuano a usare espressioni che mettono le donne in ombra, le offendono, le rendono due volte vittime. «Pensiamo al racconto della violenza, spesso c'è un'attenzione verso aspetti che rinviano a stereotipi dai quali capiamo fino in fondo quanto sia ancora presente il sessismo nella nostra cultura», aggiunge la professoressa Giuliani. «Pensiamo a un fatto di cronaca recente, l'uccisione di Carol Maltesi, l'ex commessa di 26 anni presa a martellate e fatta a pezzi da un uomo con cui aveva avuto una relazione.

Ci si è soffermati su quello che faceva, lavorava nel mondo dei video hard, piuttosto che sulla ferocia dell'assassino. O sul fatto che fosse mamma, come se la sua libertà sessuale compromettesse la sua vita affettiva. Io trovo che questo sia insopportabile».


E allora, quali parole dovrebbero essere cancellate quando si racconta la violenza? «Sicuramente raptus, una parola che non esiste, lo dice anche la psichiatria. L'infelice formula amore criminale, dove c'è amore c'è rispetto e non può esserci crimine. Crisi familiari o crisi coniugali, oppure espressioni come: sono volati gli schiaffi. Gli schiaffi non volano, c'è una persona che picchia e uno che è picchiato. La violenza va chiamata con il suo nome, e invece con facilità si usano eufemismi per attenuare la responsabilità. C'è una forma di normalizzazione della violenza e degli stereotipi che la nostra lingua opera».
INCONSAPEVOLI
Copioni non scritti e di cui non siamo consapevoli. Prendiamo il caso della preside romana che avrebbe avuto una relazione con uno studente maggiorenne, peraltro da lei negata. «Stupefacente che sia stata messa al centro della vicenda, con nome, cognome e foto. Sappiamo tutto di lei e non abbiamo saputo niente del professore di Cosenza accusato di aver molestato alcune allieve. Il che ci conferma quanto sia difficile cambiare le leggi che governano la nostra testa».
E quali sono le parole che servono? «Servono parole serie che restituiscano dignità, attenzione e sguardo alle questioni che riguardano la disparità e la mancata rappresentanza delle donne», sostiene la professoressa Daniela Brogi, che insegna Letteratura italiana contemporanea all'università per stranieri di Siena e ha appena pubblicato con Einaudi il saggio Lo spazio delle donne. «È da preferire l'espressione pari opportunità invece che quote rosa. Servono termini come sessismo e patriarcato che non si usano per il timore di essere tacciati di femminismo. E serve una sintassi: avere il coraggio di chiedere a chi usa frasi fatte il perché».
 

Ultimo aggiornamento: 22 Febbraio, 19:18 © RIPRODUZIONE RISERVATA