Silvio Orlando: «Abbiamo il diritto di falllire, i sogni possono fare anche del male»

Mercoledì 21 Febbraio 2024 di Chiara Pavan
Silvio Orlando in "Ciarlatani"

L'INTERVISTA

Abbiamo il diritto di fallire. Senza per questo sentirci dei perdenti. In fondo, siamo tutti un po’ “ciarlatani”, pronti a raccontarci bugie per stare meglio. Silvio Orlando ride divertito, «siamo un po’ così, cerchiamo di darla a bere agli altri, ma soprattutto a noi stessi». Ed è proprio con “Ciarlatani”, spettacolo scritto e diretto dallo spagnolo Pablo Remon, che il celebre attore amato da Moretti e Sorrentino torna sul palco del Toniolo di Mestre dal 21 al 25 febbraio  (www. myarteven, incontro con la compagnia il 23 alle 18), per poi arrivare dal 1 al 3 marzo al Del Monaco di Treviso nella stagione dello Stabile.

«Il titolo spagnolo era “Comediantes” - aggiunge Orlando poteva diventare “Commedianti” anche per noi, ma Davide Carnevale, il traduttore, ha scelto “Ciarlatani”: ci sembrava più giusto, immediato, in certo senso mette anche di buonumore.

Ci prendiamo in giro, ovviamente c’è un sottofondo importante, anche amaro e malinconico».

Che accade in scena?

«I personaggi principali cercano in qualche modo di superare i momenti difficili. Sono una giovane attrice e un regista di fronte ai loro fallimenti. La prima cerca il proprio posto al mondo, il secondo, che un tempo ha avuto successo, sente di avere un posto nel mondo che non gli corrisponde, e ora vorrebbe lasciare un segno. È uno spettacolo sul diritto al fallimento, uno dei diritti fondamentali dell’uomo: fallire senza le stimmate del perdente, o peggio, parola orrenda, dello “sfigato”.Una pressione che i ragazzi oggi sentono moltissimo».

Il successo è diventato quasi un obbligo sociale.

«Esatto. I modelli che arrivano attinge ai miti, ci mostrano case bellissime, ricchezza, bellezza. Il successo di un “sogno”».

I sogni possono fare male?

«Credere nei propri sogni è lo slogan di questi anni: credete nei sogni, inseguiteli, non fateli morire, una standardizzazione ormai. Spesso si perde il senso della realtà: credo invece che si cominci a realizzare le cose quando si smette di sognare. E ci si occupa di quelle 4 o 5 cose che si può o si vorrebbe far bene. E lo spettacolo parla proprio di questo: come stare al mondo, cosa che appartiene a tutte le professioni».

Ha scoperto il testo grazie a un amico che lo interpretava in Spagna, Javier Camara, altro cardinale a fianco del suo Voietto in “The Young Pope” di Sorrentino.

«Un attore che ha una storia simile alla mia, partito dalla comicità e poi ha affrontato il genere drammatico con Almodovar. Ha sensibilità e ironia. Sono andato a vederlo, ero curioso, ma avevo anche letto il testo che mi era piaciuto. Lo spettacolo è in linea con quello che cerco: parlare al pubblico con testi contemporanei. Certo, spero di parlare anche ai giovani. Ma quando si parla di svecchiare il pubblico si pensa ai 50enni. D’altra parte il teatro spesso parla di “dove abbiamo sbagliato”, e un ragazzo, a 18 anni, non è che lo senta tanto».

Eppure la protagonista dello spettacolo è giovane e sente già il fallimento.

«Negli Usa la chiamano la “crisi del quarto di vita”: ai 25 anni arriva la prima vera grande crisi, in cui i giovani si sentono inadeguati, finiti. E questo crea angoscia».

La pressione del successo?

Siamo i nostri negrieri: spunta un richiamo alle teorie del pensatore coerano Byung-ChulHan che legge nel capitalismo una chiave evoluta di sfruttamento. Siamo come ditte individuali, c’è un padrone invisibile e noi cerchiamo di offrire la migliore versione di noi stessi. Se fallisci è colpa tua, solo tua, e non te la puoi prendere con
nessuno. Alla lunga diventa snervante, si distrugge tutto. E questo è uno dei momenti topici dello spettacolo. Alla fine forse si rinuncia al sogno, ma per la prima volta ci si guarda per quello che si è».

E lei come si rapporta coi fallimenti?

«Io ho avuto fortuna: il mio dono, personale, coincideva con quello che volevo fare, ossia recitare. Una cosa naturale, mi sentivo al posto mio, ed ero confortato da questo. Poi è chiaro, l’attore non vuole fare solo l’attore, ma vuole diventare famoso. In quel caso, ci vuole quid in più che non è qualcosa di tecnico, ma un’attitudine naturale. Ce l’hai o non ce l’hai. Anche io ho avuto i miei “up and down”, ovviamente: per ogni età devi riprendere da capo, devi resettare e ripartire, e il teatro è stato il mio luogo del pensiero».

Cos’ha di così speciale?

«Le mie uniche radici sono lì. A teatro sono nato, ci ritorno e trovo un senso a quello che faccio. Certo, ogni tanto lo tradisco, ma alla fine non ne faccio a meno». E dal 7 marzo torna al cinema con Virzì, nel seguito di “Ferie d’agosto”.

Che accade  a Ventotene 27 anni dopo?

«Si vede cosa è successo a quelle persone e ai loro discendenti, e si cerca di capire come è diventato il mondo nel frattempo. In questo “altro ferragosto” l’elemento politico resta più sullo sfondo, è più esistenziale, si avverte il vuoto di questo tempo. Quello che resta sono un po’ di macerie. Un film molto amaro, anche se si ride molto».

Ultimo aggiornamento: 14:48 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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