Sarà pure stato inopportuno e intempestivo, ma in fondo il presidente della

Sarà pure stato inopportuno e intempestivo, ma in fondo il presidente della
Sarà pure stato inopportuno e intempestivo, ma in fondo il presidente della Commissione europea ha detto una banale verità. La preoccupazione espressa da Jean-Claude Juncker per...

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Sarà pure stato inopportuno e intempestivo, ma in fondo il presidente della Commissione europea ha detto una banale verità. La preoccupazione espressa da Jean-Claude Juncker per l'Italia del dopo elezioni, infatti, è legittima non solo per un'economia che fatica a tenere il passo della media Ue nonostante che nel 2107 sia cresciuta quasi dell'1,6%, ma anche perché i conti pubblici sono sempre in bilico e, oltretutto, non si vedono ricette di valenza strategica all'orizzonte. D'altra parte, se anche Juncker non avesse aperto bocca, da settimane parlano i mercati: con lo spread a 141 punti sui bund tedeschi decennali, abbiamo quasi raddoppiato la Spagna (85 punti) e superato la Repubblica Ceca (124) e persino il Portogallo (138), secondi solo dopo il Belgio (295).

Insomma, più che cercare di attribuirsi meriti che sono principalmente dovuti a fattori esogeni e congiunturali, bisognerebbe preoccuparsi di quanto già fatto trapelare da Bruxelles mesi addietro e quanto certificato dall'Ufficio Parlamentare di Bilancio. E cioè che già in primavera si rischia di dover intervenire con una manovra correttiva per un taglio del deficit di almeno 3 decimali. Non solo. Dopo la flessibilità pari a 30 miliardi che Bruxelles ci ha concesso in questi anni - e sui cui non sembrano esistere margini per concessioni ulteriori - dal 2019 l'unico strumento per ridurre il debito come ci siamo formalmente impegnati a fare, saranno le clausole di salvaguardia, pari ad un aumento dell'Iva per 12,5 miliardi nel 2019 e di 19,2 miliardi nel 2020. Purtroppo trovare coperture alternative è diventato particolarmente arduo (Upb dixit), ma la scelta dovrà arrivare già nel Def di aprile, e chissà che esecutivo ci sarà.

Ecco, una volta che i libri dei sogni aperti in questa campagna elettorale saranno finiti nel cestino, bisognerà tornare a fare i conti con la realtà. Il riordino degli sgravi fiscali, a cui pensano più o meno tutti i partiti, è impraticabile. Intervenire sulle pensioni metterebbe a rischio la loro sostenibilità. La spending review si è rivelata uno slogan, mentre la lotta all'evasione potrebbe aver già fatto il pieno con le due rottamazioni e le varie voluntary disclosure. Insomma, le cartucce sembrano finite, mentre un ulteriore aumento del debito non è più praticabile, come ha sentenziato la Corte dei Conti. Allora, perché non proporre un'operazione straordinaria in cui conferire parte del patrimonio immobiliare pubblico inutilizzato ad una società che possa emettere bond, il cui ricavato vada a tagliare il debito? Tra l'altro, così si potrebbe chiedere come contropartita un corposo sforamento sul deficit, da spendere in investimenti in conto capitale. Inoltre, o quantomeno oppure, c'è da mettere mano all'inefficiente e costoso decentramento amministrativo. Ma sul serio. Perché, per esempio, le province, date per abolite, sono talmente vive che è in arrivo una nuova tassa con il consenso di tutti i gruppi. Dunque, perché non ragionare sulla riduzione del numero delle regioni o, in alternativa, sull'abolizione tout-court delle regioni, creando snelle macro-provincie? Qui bisogna cominciare a pensare al dopo. Seriamente.
(twitter @ecisnetto)
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Il Gazzettino