I clan nelle aziende venete: «Meglio falliti che in mano alla mafia»

«Purtroppo quando la notizia  diventa pubblica, è la fine. La gente ti associa alla mafia, non sa cosa stai passando. E' stato difficilissimo: anche i miei...

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«Purtroppo quando la notizia  diventa pubblica, è la fine. La gente ti associa alla mafia, non sa cosa stai passando. E' stato difficilissimo: anche i miei genitori non mi parlavano più. Quella gente è come il cancro: appena entra nella tua vita ti rovina. Ho dovuto mollare tutto ma ho preferito denunciare, rischiare la reputazione, adesso però posso andare a testa alta. Se accetti le loro condizioni e la testa invece la abbassi, non ti rialzi più, prima o poi, finisci male. La giustizia è finalmente arrivata, magari tardi: ma è arrivata. Spero che rimangano dentro». Stefano Venturin, assieme alla moglie Maria Giovanna Santolini, ha imparato sulla sua pelle lezioni impossibili da dimenticare. Sono stati lui e sua moglie, con la loro denuncia, a scoperchiare gli affari della 'Ndrangheta in Veneto.


IL SISTEMA MAFIOSO

Lui era socio al 50% di un'azienda di Campagna Lupia (Ve), la moglie invece aveva il 60% della Sama Holding di Camposampiero (Pd). Volevano acquistare la Gs Scaffalature, azienda di Galliera Veneta (Pd) in crisi ma dalle grandi potenzialità. Un'operazione da imprenditori che investono con rischi calcolati: «Non stavamo male - spiega Venturin - avevamo tutte le coperture dalle banche». Ma l'operazione si è trasformata in un vero inferno. Di mezzo si sono messi i fratelli calabresi Sergio e Michele Bolognino affiliati, secondo l'inchiesta del pm Gilberto Stigliano Mesutti, alla cosca Grande Aracri e sempre a caccia di aziende da svuotare per operazioni di riciclo.

I Bolognino sono comparsi nella vita di Venturin nell'ottobre del 2012, portati da un socio che aveva ceduto le sue quote. Ed è iniziato l'incubo: «Il giorno dopo l'ingresso dei fratelli calabresi in società avevo già un commercialista di loro fiducia che mi diceva cosa fare». I rapporti sono subito tesi: «La rottura è arrivata quando mi sono rifiutato di accettare 400mila euro in contanti che mi avevano portato per l'acquisizione della società. Non potevo tollerare quella modalità, sarebbe stato un disastro: oltre ai guai con loro, gli avrei avuti anche con la giustizia. Per convincermi erano venuti da me con quello che mi è stato presentato come il loro capo. Alla fine mi hanno detto che, rifiutando, avevo mancato di rispetto alla loro famiglia. E che l'avrei pagata». La situazione è quindi degenerata. Il giorno più difficile è stato, senza dubbio, il 2 aprile del 2013 quando i calabresi li hanno aggrediti e malmenati all'interno della Gs: «Da lì è partito tutto - ammette Venturin - ma nei giorni precedenti ce ne sono capitate di tutti i colori. Poche settimane prima, il 13 marzo, sono stato letteralmente sequestrato nella mia azienda. I fratelli Bolognino e il loro guardaspalle, che girava sempre armato, verso le 7 di sera mi hanno costretto ad entrare in una stanza togliendomi il cellulare, insultandomi e minacciandomi. E sono rimasto lì dentro, da solo, fino alle 9 della mattina dopo».
LE BOTTE
Il pestaggio è stato drammatico. Venturin e la moglie sono stati presi a pugni e schiaffi: «Ci hanno picchiato, hanno minacciato mio figlio nato da poco. A quel punto ho deciso di chiamare i carabinieri. Ma qualche settimana prima ero andato anche dalla Guardia di Finanza di Padova per denunciare certe cose. Mi hanno ascoltato dicendo che, al momento, era meglio osservare».
CONSEGUENZE

Dopo la denuncia, dopo le botte, Veturin e moglie hanno deciso di mollare tutto: «Sì - conferma - abbiamo ceduto le quote, siamo scappati. Avevamo paura, ci avevano minacciato di morte, avevano minacciato di uccidere nostro figlio. Devo ringraziare i carabinieri che, per molto tempo, hanno messo ogni notte una pattuglia nei pressi di casa nostra». Infine la lezione mandata a memoria: «Quando ci si rende conto che non c'è più niente da fare, meglio fallire. Meglio prendere i libri contabili della propria azienda e portarli in Tribunale piuttosto che affidarsi a quella gente. È vero: se fallisci perdi l'azienda, tutto; se finisci nelle loro mani perdi tutto lo stesso, ma anche la vita».
Paolo Calia Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino