VENEZIA - Dire a un collega che è «opportunista» può costare un processo. O magari anche due, a giudicare dall'ordinanza della Cassazione pubblicata...
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IN TRIBUNALESulla base della denuncia scatta il processo in Tribunale a Verona. Il 7 dicembre 2017, il giudice di pace assolve la donna, ritenendo che il fatto non costituisca reato. In particolare il magistrato reputa che la dipendente, nel suo ruolo di superiorità rispetto al collega, abbia esercitato il diritto di critica. Ma la parte civile non viene condannata alla rifusione delle spese in favore dell'imputata, malgrado quest'ultima non risulti colpevole secondo la sentenza, che a quel punto viene impugnata da entrambi i contendenti, ancorché per motivi diversi.
IL RICORSOTartarotti presenta ricorso in Cassazione, sostenendo che non possa essere riconosciuto alle 57enne il diritto di critica e che sia sbagliata la ricostruzione secondo cui l'appellativo «opportunista» sarebbe stato riferito al comportamento e non alla persona. Il 54enne fa presente che nel documento di valutazione sarebbero stati riconosciuti i suoi risultati «nel conseguimento degli obiettivi di prestazione» e che quell'epiteto sarebbe stato usato «facendo riferimento ad un avanzamento di carriera risalente al diverso anno 2010 e a ferie del 2013 che risultavano concordate con i colleghi». A queste argomentazioni Chiavegato risponde ribadendo che «le espressioni contestate non offendevano l'onore o la reputazione del Tartarotti ma si limitavano a censurarne l'attività lavorativa svolta». Si arriva così alla decisione della Suprema Corte: visto il tenore tecnico delle doglianze formulate dalla parte civile, il ricorso deve essere convertito in appello. Di qui la trasmissione degli atti al Tribunale scaligero, dove dovrà essere celebrato il giudizio di secondo grado.
A.Pe. Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino