Marco Zennaro si racconta: «Il mio inferno in Sudan, nulla sarà più come prima»

VENEZIA - Le mani sono ricoperte di vesciche e abrasioni, ma non fanno male. Quelle ferite, infatti, sono il risultato del ritorno ai remi dopo un anno di assenza e per Marco...

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VENEZIA - Le mani sono ricoperte di vesciche e abrasioni, ma non fanno male. Quelle ferite, infatti, sono il risultato del ritorno ai remi dopo un anno di assenza e per Marco Zennaro non potrebbe esserci dolore più dolce. «Non sono molto in forma - racconta con un sorriso - ma domenica parteciperò comunque alla regata di Mestre, più per godermi la giornata e la compagnia che per la gara in sé, come può immaginare non mi sono potuto allenare granché negli ultimi tempi». Zennaro, 47 anni, imprenditore titolare della ZennaroTrafo di Marghera, sta riprendendo in mano la sua vita: un anno fa era in carcere a Khartoum, in Sudan, a causa di una controversia commerciale degenerata in quella che era stata definita una vera e propria “richiesta estorsiva”. Due mesi fa, il rilascio e il tanto agognato ritorno a casa, a Venezia.



Zennaro, dove eravamo rimasti? A quella domenica di marzo e all’abbraccio della sua città...
«Domenica sono tornato dal Sudan e lunedì ero in ufficio: ho voluto subito ricominciare a lavorare. Ovviamente non è tutto com’era prima, soprattutto io non son più quello di prima».

In Sudan l’hanno “sequestrata” per un anno per una fornitura di trasformatori che, secondo la controparte, erano difettati. Che fine hanno fatto?
«Erano talmente difettati che ora quei trasformatori, che prima valevano mille, si possono rivendere a 5mila. Un patrimonio, insomma. Il miliziano voleva tenerseli nella trattativa, ho tenuto duro e sono riuscito a salvarne una parte. Ora sono in un deposito sorvegliato». 

Se potesse tornare indietro di un anno, a quel marzo 2021, rifarebbe tutto come allora?
«Sì perché non avrei mai pensato di rischiare qualcosa. Noi non traffichiamo armi, siamo dei produttori che vendono dei prodotti: la cosa più spiacevole che ti può capitare è che non ti paghino o che ti rimandino indietro la merce». 

Durante il suo periodo di detenzione non sono mancate le pressioni. È vero che la minacciavano di «fare la fine di Regeni?»
«Ricordo che al mattino il capo della stazione di polizia veniva a svegliarmi, prendendomi a calci, e mi diceva “devi pagare, pagare. Altrimenti fai come l’egiziano, come quello in Egitto”».

Le violenze erano anche fisiche?
«No solo psicologiche. Però le ragazze che venivano prese per dei piccoli furti le portavano in una stanza delle torture e le frustavano. Si passava una notte intera tra le loro urla disumane, era tremendo». 

Come aveva fatto a procurarsi un cellulare in cella?
«L’ambasciatore era riuscito a farmelo tenere. Però era iniziato un giochetto con le guardie: me lo prendevano e dovevo pagare per riaverlo, ogni giorno. Finché a un certo punto ho detto: ok tenetelo, non mi cambia nulla. Il giorno dopo me l’hanno ridato e non mi hanno più chiesto nulla». 

In carcere aveva trovato un amico, un professore iracheno. Ha più saputo nulla di lui? 
«Amid è stata la mia fortuna lì dentro. L’ho sentito qualche giorno fa: è uscito dal carcere ma non ha finito il processo. Anche il suo, comunque, per una controversia commerciale». 

Lei ha avuto problemi anche con un’altra ditta, mentre era in Sudan, che lamentava altri problemi ma sempre legati ai fornitori. Com’è finita quella partita? 
«La fornitura era la stessa. Quel dibattimento sta andando avanti e vedremo come finirà, spero che riusciremo a metterla a posto presto, sono ottimista. Lì non era possibile, quando ti privano della libertà, senza alcuna giustificazione, è difficile rimanere lucidi». 

Riportarla a casa non è stato per nulla semplice. 
«La diplomazia purtroppo è riuscita a fare ben poco. Non lo dico con rabbia, ma è la verità. La diplomazia ha perso slancio, e non solo in Sudan: basta vedere quello che sta accadendo in Ucraina». 

L’architetto della trattativa è stato il direttore della Farnesina, Luigi Vignali. Com’è stato il vostro rapporto?
«L’ho sentito vicino fin da subito. L’ho già detto due mesi fa: non mi sono mai sentito abbandonato. Però in quei momenti ti guardi attorno e ti chiedi come sia possibile che il nostro Paese non riesca a dire la sua. Ti chiedi: “Perché non possono portarmi a casa?”»

Lavoro, famiglia, sport: le sue giornate sono sempre state decisamente piene a casa. Come ha fatto a sopravvivere all’inerzia della vita da recluso? Come trascorreva il tempo?
«Ho dovuto lavorare molto sulla concentrazione, sul percepire i segnali di perdita di lucidità. Ho letto molto, certo, poi quando sono uscito dal carcere ho fatto boxe, palestra, e lunghe camminate. Anche se lì ti ritrovavi a passeggiare tra i cadaveri, non era esattamente rassicurante».

Suo padre Cristiano è stato la sua voce in questi mesi. Prima di questa vicenda, il vostro era stato un rapporto un po’ complicato: il Sudan vi ha riuniti?
«Lui è una persona che non si lascia avvicinare facilmente: l’ho sentito un paio di volte da quando sono tornato. Rimarrà sempre mio padre, ma la nostra visione della realtà è molto diversa. Certo lo ringrazierò sempre per aver avuto il coraggio di starmi vicino rischiando il carcere, mi dispiace solo che non riusciamo a parlare la stessa lingua». 

Qual è stata la prima cosa che le han detto i suoi bambini?
«È un momento che ricorderò sempre: un momento di sospensione, di silenzio. Ha presente la sensazione di vuoto che si prova sulla giostra del “Galeone dei pirati”? La più piccola, ancora oggi, quando sto per andare al lavoro mi dice: “Papà non andare via”».

Ritornerà in Sudan un giorno?


«Non adesso. Però quando sarà stata spazzata via quella gente che mi ha rubato un anno di vita tornerò di sicuro». Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino