Pazzia, malattia mentale, le ferite nate nell’infanzia che ci rendono più fragili, scavando solchi così profondi da cui non si riesce ad emergere: esistenze...
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IL PROTAGONISTA
Casadio racconta il dolore, la solitudine di un uomo internato. Sul palco un armadietto, un letto, una scrivania e Oreste rinchiuso da trent’anni nel manicomio dell’Osservanza di Imola. Il protagonista canticchia “parlami d’amore Mariù”: è dolce, tenero, ingenuamente consapevole della sua malattia, e ha solo un desiderio, quello di andare a Lucca a prendere la donna amata, Mariù, e con lei partire alla volta di Mosca, dove il padre, a detta sua, lo starebbe aspettando per andare sulla luna. L’immaginazione, i sogni, lo tengono in vita, sono le sue armi di difesa. Oreste, difatti, non dorme mai, non prende le medicine: sogna, dipinge e ha lunghe conversazioni con fantasmi di amici e parenti, le cui immagini sono proiettate sullo sfondo: conosciamo la sorella Marilena, Ermes, ufficiale aeronautico di un esercito straniero, medici e infermieri.
LA FANTASIA
Sono loro, la sua stessa fantasia, l’inconscio in lotta per emergere, a riavvolgere i nastri della sua vita tentando di fargli ricordare episodi cruciali del suo trascorso. L’inizio della follia coincide con la morte della sorella, sbranata dai maiali del padre: da quel momento la sua vita ripercorre le orme, in chiave verista e contemporanea, dell’Oreste eschileo; il padre parte in guerra, la madre si ammala e lui finisce in collegio. Una volta uscito assiste all’omicidio del padre da parte della madre e del nuovo compagno, così, per vendicarsi, lui stesso, figlio, le toglie la vita. La drammaturgia favorisce un equilibrato incontro tra teatro e graphic novel, per ricordarci che a volte basterebbe una “carezza in un pugno” per riumanizzare un’esistenza spezzata. Leggi l'articolo completo su
Il Gazzettino