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PORDENONE - Non basta andare a caccia con il padre per subire gli stessi provvedimenti amministrativi, come la revoca della licenza di porto di fucile ad uso caccia. Lo ha stabilito il Tar accogliendo il ricorso presentato dall'avvocato Francesco Longo su un caso destinato a far discutere nell'ambiente venatorio. Il questore aveva revocato la licenza sulla scorta di un giudizio di inaffidabilità. Al giovane cacciatore si contestava di aver «approfittato, avvantaggiandosi, della posizione di supremazia che il padre, abusando delle sue funzioni, si era conquistato nell'ambito della riserva di caccia». Secondo la Questura, non poteva rendersi conto che in quell'area montana cacciavano soltanto quattro persone (lui, il padre e due amici), che sarebbe stato creato una sorta di «territorio personale» e che lui avrebbe «tratto profitto, senza sottrarvisi, da una situazione compromessa da una gestione della pubblica funzione autoreferenziale, clientelare e personalistica, che ha inciso negativamente sulla gestione dei soci della riserva». Anche il rilascio della licenza di porto d'armi, secondo la Polizia, sarebbe stata rilasciata in modo anomalo, saltando qualche passaggio.
Il Tar, senza voler mettere in discussione l'ampia discrezionalità che compete al Questore in materia di autorizzazione alla detenzione di armi, ha ritenuto che in questo caso la revoca della licenza sia sconfinata nell'eccesso di potere.
Il Gazzettino