VILLA DEL CONTE (PADOVA) - Si sistema sulla testa il cappello da alpino, poi Vittorio Ometto, 94 anni comincia il racconto. Una testimonianza lucida e pacata la sua, peraltro...
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LA DEPORTAZIONE«L'8 settembre 1943 ha colto i comandi militari alla sprovvista spiega Cirillo Menzato, consigliere dell'Associazione Nazionale ex Internati di Padova e i tedeschi disarmarono l'esercito italiano portando i soldati su carri bestiame nei lager in Germania e in Polonia. I soldati italiani erano internati, non considerati prigionieri di guerra, e pertanto privati della tutela e dell'assistenza umanitaria della Croce Rossa Internazionale prevista dalla Convenzione di Ginevra del 1929. Vennero avviati a lavorare come schiavi nelle industrie belliche tedesche».
Vittorio Ometto era addetto agli altiforni delle bombe e dei missili aerei. «La sveglia era alle 2 di notte. Le guardie tedesche facevano l'appello chiamando il numero di matricola e alle 4 si partiva. La fabbrica era a 4 ore di cammino e quando arrivavamo ci aspettavano 8 ore di lavoro. Quando uscivamo andavamo a prendere il rancio che consisteva in un tozzo di pane con condimento; alle 22.30 si rientrava in baracca, si aspettava l'appello della mezzanotte e poi alle 2 di nuovo la sveglia».
L'ANNIENTAMENTONella logica nazista erano questi i primi step verso l'annientamento psicofisico. «Il calore delle presse aveva ridotto i vestiti a cenci, il poco cibo resi debilitati e anemici. Calpestando le lamiere ardenti bruciai la suola di una scarpa e per 15 giorni camminai senza. Un giorno seppi che in una camerata era morto un commilitone. Andai a dargli l'ultimo saluto ma anche a prendermi le sue scarpe». Continua Vittorio: «Ogni due settimane facevamo i turni di notte per raccogliere i morti, lavarli e portarli in obitorio dove alcuni medici tedeschi facevano esperimenti sui cadaveri. Ci sono stati momenti che abbiamo invidiato i compagni deceduti: anche noi avremmo voluto chiudere gli occhi per sempre, per non vedere più tanto orrore, non sentire più alcun dolore». Vittorio soffre tuttora di un dolore alla schiena a causa di una scudisciata che gli è stata inferta da una guardia nazista con un nerbo di ferro. «In fabbrica mi ero addormentato per stanchezza, sfinito sopra i cumuli di proiettili allineati. Sono stato svegliato da quella bastonata di punizione di cui tuttora porto i segni. Nel corpo come nell'anima».
I suoi vent'anni, Vittorio li ha computi dentro il campo di concentramento di Fallingbostel: era il 24 marzo 1944. «Come regalo un'uscita all'esterno nell'aria di primavera, con i campi che rinverdivano all'intorno. Ma proprio a fianco al nostro c'era un campo di ebrei, con il filo spinato come il nostro, solo con l'unica differenza che era elettrizzato. Avevo voglia di volare con l'immaginazione oltre tutti i recinti, alla ricerca di una libertà lontanissima». A casa Vittorio Ometto tornò il 4 settembre 1945. «Il mio cavallo e il mio cane mi riconobbero subito e loro sì saltarono lo steccato. Per farmi festa».
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Il Gazzettino