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VENEZIA - «Con poco salvi un bambino in Africa» era scritto su numerose campane per la raccolta di indumenti usati, posizionate a Treviso. Ma un'inchiesta ha fatto emergere che quegli abiti non erano destinati ad essere donati a persone povere del terzo mondo: venivano venduti, infatti, da due società padovane ad alcune aziende toscane che, a loro volta, dopo averli sanificati, li immettevano nel mercato. Il tutto a scopo di lucro. Per quei fatti, che risalgono al 2016, la Procura distrettuale di Venezia ha messo sotto accusa cinque persone, tutte imputate di traffico illecito di rifiuti; in due devono rispondere anche di truffa per aver indotto i cittadini a consegnare i loro indumenti usati credendo di aiutare la popolazione in Africa, mentre invece l'operazione era un collaudato business. A loro insaputa.
GLI INDAGATI
Ieri mattina, di fronte al giudice di Venezia, Gilberto Stigliano Messuti, si è svolta l'udienza preliminare, conclusasi con il rinvio a giudizio di tutti: il processo si aprirà a Treviso il prossimo 20 dicembre.
LA DENUNCIA
A far emergere i presunti illeciti è stata la denuncia presentata dalla società Contarina, l'unica autorizzata dalla Regione (e dai vari Comuni) a posizionare le campane per la raccolta degli indumenti usati, la quale segnalò che le campane dei concorrenti non avevano alcuna autorizzazione. A conclusione dell'inchiesta, la Procura di Venezia ha contestato alle due società padovane, e di conseguenza alle altre, di aver trattato gli abiti usati senza rispettare le procedure obbligatorie previste per i rifiuti, in quanto gli indumenti usati così vanno considerati. Nell'udienza di ieri la difesa (avvocati Roberto Bondì, Cinzia Silvestri, Paola D'Alessandro, Nicola Badiano e Francesco Alunno) ha cercato di dimostrare che non è stato commesso alcun illecito, ma il giudice ha ritenuto che spetti al Tribunale, nel corso di un dibattimento pubblico, il compito di ricostruire i fatti ed accertare l'eventuale sussistenza di reati.
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