Sì alla Tav e sì all'autonomia delle regioni del Nord. Entro marzo, Matteo Salvini vuole «imporre» al governo l'uscita dal «tunnel di...
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Ma c'è di più. L'insofferenza sale dalla base, attraversa i gruppi parlamentari e alimenta tentazioni di rottura. Non siamo a quel punto, dice chi è vicino a Salvini. Ma i rapporti tra i due vicepremier, che finora hanno retto il patto pentaleghista, si fanno sempre più tesi. Se entro le europee la Lega non metterà a segno alcuni «sì», dalle grandi opere all'autonomia, tutto rischia di tornare in discussione. È servito un altro vertice, per evitare che la vicenda trivelle travolgesse l'intero decreto semplificazioni, facendolo decadere, o addirittura degenerasse in crisi di governo.
Giuseppe Conte, tornato da Davos, invita i vicepremier a Palazzo Chigi. Luigi Di Maio, che della «storica battaglia» stellata fa questione di vita o di morte politica, questa volta non può mollare: troppo fresco il ricordo del sì al Tap, se annacqua troppo lo stop alle trivelle il M5s rischia di esplodere. Stesso discorso sulla Tav: fare l'opera politicamente «costa» troppo. Ma Salvini non può accettare un «no» secco alle estrazioni. Prima si nega, poi risponde al telefono a Conte, che è a Chigi con Di Maio e Riccardo Fraccaro. Raccontano che non sia andato di persona, perché a casa influenzato. Ma al mattino, quando trapela l'intesa che pende dal lato pentastellato, non nasconde la sua «irritazione».
L'intesa viene definita «accettabile» dai parlamentari di via Bellerio: «Ma è certo che non siamo contenti», dicono. Da Ravenna, dove mezza città è sul piede di guerra, giungono messaggi di fuoco, perché si sospenderà l'attività di ricerca e nel 2020 la proroga per le estrazioni in corso non sarà scontata: «Abbiamo alleviato il dolore», replicano da Roma. Ma trivelle a parte, Salvini ne fa una questione di impostazione di fondo, quasi ideologica. Non intende, spiegano i deputati a lui vicini, far parte di un governo dei «no». È pronto a dialogare su tutto e anche su un tema come Consob, non si mette in mezzo alla partita che si è aperta tra M5s e Colle sul nome di Minenna.
Ma sugli altri dossier il M5s - ragionano i leghisti - non può abbracciare ogni volta le posizioni più estreme, leggendo con una lente «gialla» del contratto di governo. Allora la prossima settimana, per iniziare, la Lega lancerà la sua controffensiva sulle grandi opere, su cui anche Di Maio sembra voler aprire. Si devono fare, dicono i leghisti alla Camera, la Tav Brescia-Verona e la Gronda a Genova. Ma è al bersaglio grosso che puntano ora: la Tav si deve fare, dicono. Senza modifiche al progetto originario, aggiunge più d'uno. E la partita si annuncia di fuoco. Perché per il M5s, che da quando è partita la campagna elettorale ha rilanciato con forza i suoi cavalli di battaglia, dire sì sarebbe tradirsi.
Il «No» resta fermo: «Non va fatta se i costi superano i benefici».
Il Gazzettino