"The Handmaid's Tale": se una donna osa sfidare il patriarcato

Elisabeth Moss protagonista di "The Handmaid's Tale"
Le coincidenze arrivano sempre, come se il presente si intrecciasse alla fiction, sollecitando domande che forse non vorremmo porci: mentre le giovani donne in Iran lottano...

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Le coincidenze arrivano sempre, come se il presente si intrecciasse alla fiction, sollecitando domande che forse non vorremmo porci: mentre le giovani donne in Iran lottano per la loro libertà a costo della vita e le iniziative antiabortiste si moltiplicano negli Usa e in molti paesi europei, su Tim Vision riparte “The Handmaid’s Tale”, stagione numero 5, potente e disturbante distopia basata sul romanzo di Margaret Atwood, racconto terribile di un mondo in cui le donne vengono sottomesse a un regime patriarcale teocratico. Un mondo devastato dall’infertilità crescente, ostaggio di una visione distorta di valori e religione, imposta da una frangia di integralisti esaltati, misogini e violenti. Nella nuova terra “promessa”, Gilead, le donne fertili, le “ancelle” vengono private del loro nome e sottoposte a stupri rituali allo scopo di procreare; le altre spedite ai lavori forzati o relegate ad altri ruoli degradanti. Nessuno può ribellarsi.

LO SHOW

Dal 2017 la serie ha abbracciato il punto di vista di una di loro, June (la bravissima Elisabeth Moss), diventata “Difred” perché di “proprietà” del proprio Comandante, Fred Waterford (Joseph Fiennes), e della sua gelida moglie Serena (Yvonne Strahoviski), descrivendo prima l’agghiacciante sistema totalitario di Gilead e, poi in flashback, la separazione dalla figlia e dal marito durante il sanguinoso passaggio al regime; quindi, in una sempre più forte presa di coscienza di June e di altre ancelle, la necessità di ribellarsi. Fino alla fuga in Canada verso la libertà, ovviamente a costi altissimi: la figlioletta rimasta a Gilead, “adottata” e plagiata da una nuova famiglia, le vessazioni subite, e la rabbia post-trauma che nella quinta stagione esplode in tutta la sua potenza, portando June in territori a lei sconosciuti. Mai come oggi “The Handmaid’s Tale” diventa urgente e necessario, dimostrando come sia facilissimo regredire in un momento, perdere quelle libertà conquistate a fatica in anni di lotte, dimenticando quanto sono costate. «Come siamo arrivati a questo? - si chiedeva June all’inizio della serie- Vivevamo, come al solito, ignorando. Ignorare non è come non sapere, ti ci devi mettere di buona volontà».

IL NUOVO PERCORSO

Dai primi episodi andati in onda, due dei quali diretti dalla stessa Moss con forza espressiva ed eleganza, affiora una situazione già largamente anticipata alla fine della 4. stagione, e cioè un imminente scontro totale tra due donne diverse, June e Serena, legate da un luogo e da un uomo, ora morto per mano dell’ex ancella, e da due visioni differenti del futuro di Gilead. Sono loro le duellanti, destinate irrimediabilmente a incontrarsi. Dopo tutto, nel momento in cui June ha smesso di essere un’ancella, metafora della violenza sulle donne, del potere patriarcale e dei pericoli del fondamentalismo religioso, il suo percorso è cambiato. Stuprata, seviziata, picchiata e umiliata per anni, June non può più essere quella di prima. Parte da qui la nuova stagione, che segue l’evoluzione psicologica di June, il suo rapporto con la giustizia e la vendetta e, in generale, con il male. Quel male che le è stato inflitto ha messo radici, è cresciuto, e ora deve trovare uno sfogo. «E se fossi questa persona adesso?» si chiede scoprendo che della vecchia June ormai  è rimasto ben poco. Moss e Strahovski si fronteggiano camminando sul filo del rasoio, tra dolore e odio, vendetta e desiderio di andare avanti, in un viaggio verso lo scontro finale che regalerà sorprese. L’inferno è sempre più vicino, e il mondo, forse, è pronto a crollare. Ma dovremo attendere ancora la sesta stagione. L'ultima.

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Il Gazzettino