César Brie, la sfida del teatro necessario "Boccascena" come una «rivelazione»

Antonio Attisani e César Brie in "Boccascena" (foto Paolo Porto)
Si mettono a nudo, come solo i veri «teatranti disadattati» sanno fare, raccontandosi senza filtri, tra sogni e speranze, passioni e delusioni, illuminazioni e...

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Si mettono a nudo, come solo i veri «teatranti disadattati» sanno fare, raccontandosi senza filtri, tra sogni e speranze, passioni e delusioni, illuminazioni e inciampi in un viaggio nel tempo che coincide sì con la loro vita e le loro esperienze, ma soprattutto con loro visione del teatro. Un teatro che ha sempre cercato «l’arte della sincerità», necessario, poetico, rivoluzionario anche, un teatro nato da una vocazione autentica e dentro il quale, forse, adesso, si può anche morire - «meglio un teatro di un ospizio» dicono- magari con le maschere addosso, nella speranza di lasciare il testimone a qualcuno che verrà. È un percorso potente, divertente e anche malinconicamente vitale quello che César Brie e Antonio Attisani, maestro argentino il primo, ex attore e docente-critico teatrale il secondo, portano sul palco in “Boccascena”, «melodramma della crudeltà, o almeno una sua variante» scritto insieme durante la pandemia, ora in tour per poche date in Veneto (dopo l’applauditissima prima veneta al festival “La piazza delle arti” del Cavallino, il 25 marzo a Villa dei Leoni a Mira).

 

LO SGUARDO

Brie e Attisani sono Gatto e Volpe, due vecchi amici che si ritrovano e si confrontano, facendo i conti, senza alcun compiacimento, con se stessi e la loro storia, in un percorso che attraversa opere, scuole, maestri, colleghi, amori, colpe, malattie. Accordi e disaccordi. Piccole crepe nell’anima, memorie ferite. Il primo ha fatto «soltanto teatro» rischiando anche la vita in Bolivia, il secondo ha «visto la noia ferire il teatro e alcuni equivoci rischiare di ammazzarlo, così ho insegnato cercando di raccontare che un’altra strada era possibile». Ed è proprio questa strada “possibile” che i due vecchi amici di un tempo, l’uno specchio dell’altro, ripercorrono insieme in una feroce schermaglia che non dà tregua, tra ricordi dolorosi, paure, gioie, soddisfazioni, sogni più o meno infranti, debolezze e piccole vanterie. «Parlavo di loro per dire di me» ammette Gatto, «parlavi di te per dire di loro» ribatte Volpe che rintuzza: «Tu da giovane cercavi l’arte della sincerità, io da critico scontento sognano la rivolta dell’arte». Ecco allora che l’anziana coppia, ancora sulle tracce di un teatro necessario a sè stessa e al mondo, vorrebbe giustiziare simbolicamente Pinocchio, non il burattino ma il bambino diventato «un ragioniere qualunquista, un traditore». Forse perché abbiamo perso tutti i nostri sogni, trasformandoci in «piccoli borghesi di centrosinistra».

IL TEMA

Sul palco, sorta di anticamera dell’aldilà in cui si aggira una figura enigmatica (Caterina Benevoli) che suggerisce, accompagna e mostra le tappe della loro storia attraverso dei cartelli, i due protagonisti si interrogano su ciò che sono stati, e sul teatro come possibile “arte di vita” pervicacemente inseguita e cercata a tutti i costi. Sono le “conseguenze dell’amore teatrale”, come recita il sottotitolo della pièce, che li obbligano a guardare indietro e a interrogarsi. Il maestro argentino, Gatto cieco («la mia cecità è artistica»), ricorda, riflette e si mette in gioco; Attisani, professore in carrozzina, capisce «tutto ma non serve a niente». Ed è qui che si gioca la grande scommessa poetica di un testo che non vuol essere un testamento, ma un invito a riscoprire la “necessità” di un teatro capace di diventare “rivelazione” attraverso i pensieri più intimi di due artisti che hanno cercato di «dissotterare la vita dalla propria vita». Per «stare in scena rivelando qualcosa», come avverte il maestro argentino, donando una rivelazione, non carezze consolatorie. «Perché il segreto è non avere niente da perdere quando hai qualcosa».

I GIOVANI

Una lezione di vita per i giovani di oggi che, come avvertono Gatto e Volpe, soffrono della sindrome di Cristoforo Colombo, «vogliono essere scoperti, se nessuno li scopre, soffrono. Quando vengono scoperti, diventano subito inquilini del condominio Adattamento». «Il modello per i giovani di oggi sono gli imitatori e i presentatori, invece di offrire il corpo agli spiriti, li scimmiottano». Sono corpi che fanno finta «di essere». Proprio per questo, forse, è necessario ritrovare un’altra via. E forse, come pensano i due autori, «dopo la peste il teatro più sarà marginale e più diventerà incisivo, e alla fine si ritroverà necessario». Magari con nuovi volti, nuovi sguardi, nuovi pensieri pronti a sfidare le tenebre del nulla. Perché, come chiude il “servo di scena” dopo l’uscita dei due protagonisti vestiti a nozze per andare a morire, «tu mi consumi, ma io resto vivo. Se tu mi bruci, buio, io ti scrivo. L’inchiostro è nero, ma la carta è bianca. Vieni tenebra, vediamo chi si stanca». Da vedere e rivedere.

Ps: Alla pièce si accompagnano il volumetto “Boccascena” con il testo dello spettacolo e un’intervista di Roberto Cuppone a Cesar Brie e a Antonio Attisani, e una potente graphic novel che illustra il copione firmata da Marisa Bello e Giuliano Spagnol, entrambi editi da Compagnia Tiresia Banti. Da leggere e custodire.

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Il Gazzettino