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Costantemente alla ricerca di una propria territorialità e soprattutto di un tempo inafferrabile nel dipanarsi delle storie, il cinema di Robert Zemeckis è da sempre catturato da un corto circuito tra la realtà e l’immaginazione, tra il bisogno di evadere e quello di trovare una propria ragione nella sconnessione degli avvenimenti. In questo, “Ritorno al futuro”, abbondantemente citato, è solo il più conosciuto esempio, oltre a uno dei più riusciti, ma non c’è film dove l’insorgere di ambiguità, location obbligatorie, rarefazione di contatti veri che si votano all’immaginario non comportino una destabilizzazione continua all’interno di una narrazione costipata dal desiderio di riannodare mondi, storie e percezioni sfuggenti e alternative. Così “Benvenuti a Marven”, 19esimo film del regista statunitense, sembra ricapitolare tutto il percorso creativo svolto fin qui (occhio all’inizio anche al camion con la scritta “Allied”), esasperando in modo ancora più evidente, quasi buffo, sicuramente spiazzante, il raccordo tra realtà e immaginazione, tra tempi e luoghi sdruccioli e complessi.
Mark Hogancamp subisce un pestaggio omofobo da parte di un branco di teppisti. Il trauma gli fa perdere la memoria. Così per superare questa separazione dal proprio passato, Mark costruisce nel giardino di casa, un mondo parallelo in miniatura (il paese di bambole di Marwen, appunto, localizzato in Belgio), attraverso un alter ego, un aviatore abbattuto durante la II Guerra Mondiale e salvato dai nazisti da un mini esercito di soldatesse virago. Il capitano Hogie diventa così l’artefice di una personale rilettura della vita di Mark, come esercizio terapeutico.
Basato sulla storia vera dell’artista e fotografo Mark Hogancamp, feticista delle scarpe a spillo che amava indossare, già al centro del documentario “Marwencol” di Jeff Malmberg (2010), di cui il film rappresenta l’estensione finzionale, Il film è un ulteriore gioco a incastro, tra stop motion e mondo reale. La rielaborazione del trauma passa per i concetti chiave del cinema zemeckisiano, portando lo spettatore a fluttuare tra i mondi alternativi, dove i temi della diversità e dello sbandamento esistenziale portano una questione morale a conquistare l’urgenza del film (si veda, in questo, il commovente finale, in tribunale, di forte impronta spielberghiana).
Se il film si inceppa, specie nella parte centrale, tra una ripetitività ostentata e un didascalismo eccessivo, la materia non diventa mai stucchevole, nemmeno quando una matrice eterosessuale sembra impadronirsi della scena; il divertimento della citazione (occhio alla doppia incursione nella scena del campanile) è ludico e intelligente; e Steve Carell dona a Mark l’impronta di un malessere inguaribile e di una innocenza perduta. In un mondo di bambole, eco di una vita travagliata.
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Il Gazzettino