Adriano De Grandis
OGGETTI DI SCHERMO di
Adriano De Grandis

Povere creature e ragazze in vacanza:
Scoprire la vita tra sesso e libertà

Venerdì 2 Febbraio 2024

Sorretta dalla vittoria all’ultimo Un Certain regard del festival di Cannes, approda sugli schermi italiani l’opera prima di Molly Manning Walker, londinese direttrice della fotografia, poi passata al corto e infine, a 30 anni, al lungometraggio con questo “How to have sex”. Un esordio segnato dalla storia di tre amiche che si avventurano durante una vacanza estiva a Creta, nella quale le ragazze cercano divertimento, conoscenze e soprattutto sesso, visto soprattutto dalla parte di Tara, che non ha ancora perso la verginità. Affiancata dalle altre due ragazze, di cui una è lesbica, Tara non è ancora in grado di seguire liberamente l’istinto, che la porta soprattutto a entrare in confidenza con Badger, un ragazzo apparentemente spavaldo ma in realtà piuttosto timido, finendo col cedere invece a Paddy, che si presenta meno estroverso, ma che sa cogliere l’attimo più propizio, purtroppo con un approccio che segnerà il resto della vacanza di Tara. La prima parte del film scorre nella disinvoltura di balli, musiche e alcol a nastro, mostrando una energia scoppiettante, una capacità di osservare corpi e attese, con uno stile libero, giocoso, palpitante, lontano da indugi moralistici. In questa esuberanza, perfino pudica, di corpi al sole, in piscina o al mare, le tre ragazze cercano un loro posto e ne percepiamo tutta la voglia che si manifesta al primo, importante impatto con la vita, dove possono affiorare anche rivalità, gelosie. La conoscenza col sesso, che come spesso avviene è tutt’altro che entusiasmante alla prima esperienza, provoca una rottura con il clima di festosa giovinezza, perché Tara vive questo passaggio insicura e incerta sia per il peso di un obbligo sociale (il bisogno di divertirsi, il sentirsi partecipe nel gruppo, l’insistenza delle compagne), sia perché tale percorso segnala un’ambiguità nel suo comportamento, tra la sensazione di essere usata e l’incapacità di esternare un respingimento. Perdendo quel senso ludico per un amplesso forzato e perfino distante dalla propria intimità, Tara, alla quale Mia McKenna-Bruce dona quell’acerba sensazione che già nell’adolescenza possano nascere i primi rimpianti, vaga altrove facendo disperdere per una notte le tracce a Skye ed Em, preoccupate ma non troppo, portando il racconto in una parentesi intimistica, instabile e anche più banalmente narrativa, nella quale la regista mostra il deteriorarsi dei rapporti e la sensazione di essere già distante da tutto il resto. Ne esce un teen movie, che sembra richiamare in qualche modo il recente “Aftersun” e soprattutto “Spring breakers”, più riuscito e più coinvolgente nella prima metà, un po’ ingrippato in quella svolta più drammatica, ma capace comunque di raccontare corpi che si fanno vita, come solo l’adolescenza sa far succedere. Voto: 6,5.

LEONE D'ORO - Il Leone d’oro ricevuto a settembre non colse nessuno di sorpresa. D’altronde qualche anno prima sempre a Venezia lo aveva soltanto sfiorato con “La favorita”, che arrivò a conquistare il Gran Premio della Giuria e la Coppa Volpi a Oliva Colman, nei panni della regina Anna di Gran Bretagna. Non che fino a quel momento la sua vita di cineasta fosse avara di lodi, però è chiaro che il suo cinema, proprio con “La favorita” ha subìto un cambiamento piuttosto evidente, smussando non poco la crudeltà di fondo di una narrazione tragicamente votata a un’insistenza sarcastica nei confronti dei propri personaggi. È stato così da “Kinetta” fino a “Il sacrificio del cervo sacro”, fino a quando cioè il regista, tra i fondamentali del nuovo cinema greco avarissimo di qualsiasi riferimento ottimistico, ha scritto i suoi film con l’altrettanto ateniese Efthymis Filippou. Da qui in poi (e oggi siamo al secondo film) è arrivata la collaborazione con l’australiano Tony McNamara, quindi con un’altra e bene diversa visione della vita e del cinema. Il risultato è un autore oggi probabilmente più accessibile al grande pubblico, meno radicale, non certo più sofisticato, meno respingente ma sicuramente più digeribile. “Poor things”, che in italiano diventa fortunatamente “Povere creature!” anche se andrebbe rimproverata l’idea di aggiungere un punto esclamativo al titolo, è una storia a dir poco bizzarra, che viaggia costantemente sul confine tra farsa e dramma. Un materiale discretamente esplosivo che potrebbe implodere da un momento all’altro. A Lanthimos, invece, riesce il suo gioco beffardo e acido, dove una specie di dottor Frankenstein (Willem Dafoe, dalle cento cicatrici) riporta in vita una suicida, alla quale trapianta il cervello del proprio feto. Da qui Bella (una coraggiosa Emma Stone, anche nella sua nudità) è come fosse una bambina: deve imparare tutto, soprattutto equilibrare la sua libertà esagerata, nei comportamenti e nel linguaggio in società. In fuga nel mondo ritroverà il proprio passato, decidendo il suo futuro. Il pregio di Lanthimos è che non ha mai nascosto di essere un regista spesso insopportabile, ma come detto negli ultimi lavori ha fortemente stemperato le sue ostinazioni. Ne esce così un ottimo film che gioca sulla deformazione del corpo (a comincia dall’evidente riferimento al più famoso dottore della storia dell’horror) e dello sguardo (dai grandangoli sparati fino al fish-eye, che non sono incontrollato esibizionismo), tra location reinventate sul set (Londra, Parigi, Lisbona), sommando libero arbitrio al sesso scatenato, il fantasma della libertà alla prigione delle relazioni, e ancora riferimenti e omaggi a Browing, Whale, Buñuel e anche Von Trier, tra bianco-nero e colori sgargianti. Va detto anche che si ride molto, tra battute caustiche e situazioni estreme, dove la traccia del proto-femminismo porta alla fatale conclusione. Merita attenzione. Voto: 7,5.

 

 

Ultimo aggiornamento: 19:35 © RIPRODUZIONE RISERVATA